Ci sono opere d’arte dal profondo valore simbolico che ci sono state tramandate per l’importanza del loro messaggio, mi viene da pensare alla Guernica o alla Libertà che guida il popolo, ma ne esistono altre ben più nascoste e frivoleggianti che però nascondono una storia di rivalsa nonostante la sorte è stata loro alquanto avversa.
Giovanni Boldini era già il simbolo della Belle Epoque, il pittore ferrarese poi trapiantato a Parigi dal 1872 divenne la mecca di qualsiasi avvenente signora desiderosa di lasciare ai posteri l’immagine più elegante e aristocratica di sè stessa e nessuno più di Boldini era adatto a render sulla tela il lusso, lo sfarzo e il dinamismo di questa sfolgorante epoca a cavallo tra l’800 e il ‘900.
Nel 1901 Boldini sbarcò a Palermo non solo per godersi la città simbolo della ricchezza siciliana ma per dipingere una donna considerata la Regina di Sicilia, Donna Franca Florio, nobile di nascita e ricca per matrimonio con l’allora magnate pre-Russia, Ignazio Florio, che aveva affari in tutti i campi, dalle tonnare più belle e attive dell’isola all’editoria.
La coppia viveva nel capolavoro Liberty, il Villino Florio, e fece costruire Villa Igiea, oggi hotel di lusso con l’affaccio direttamente sul porticciolo di Palermo, un luogo che si lega alla storia della famiglia con le vicende, i drammi e la futura decadenza.
Donna Franca vestiva gli abiti di Worth, il primo couturier della storia del costume, realizzati appositamente per lei a Parigi, indossava gioielli meravigliosi e il suo filo di perle aveva come unica rivale la Regina Margherita prima e la Regina Elena dopo, da cui fu peraltro nominata “dama di corte”. Era bellissima ma anche molto infelice a causa delle corna del marito, l’uomo più invidiato del regno.
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Donna Franca Florio, Giovanni Boldini |
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Dettaglio. |
Nel 1901 Boldini la dipinge in tutta la sua bellezza, con un lungo filo di perle, un’acconciatura ben curata, gli occhi distratti tra il grigio e un intenso azzurro e un abito che lascia intravedere spalle e caviglie allungate con una scarpa a punta molto moderna. La posa sofisticata e naturale la fa sembrare in procinto di uscire dalla tela e avvicinarsi allo spettatore.
È un’immagine eterna ed eterea che solo le pennellate rapide e sicure di Boldini avrebbero potuto imprimere con tutta la sua bellezza.
L’unico a non essere d’accordo è il marito Ignazio che scrive al pittore che non avrebbe pagato il quadro che considerava impudico e troppo seducente per poterlo esporre, così il ritratto dovette esser rifatto e nella nuova versione del 1903 Donna Franca indossava un abito lungo e nero custodito fino a oggi presso Palazzo Pitti, ed esposto in occasione di una mostra sui suoi abiti nel 1986. La seconda versione venne trafugata dai nazisti durante la seconda guerra mondiale e se ne sono perse completamente le tracce, e la prima versione invece? Rimase nell’atelier parigino di Boldini fino al 1924, anno in cui lo comprò il Barone Rotschild, grande estimatore, ed è per questo che il quadro riporta questa data nonostante fosse stato dipinto più di 20 anni prima.
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La versione ora scomparsa del ritratto di Donna Franca Florio. |
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Donna Franca Florio con l'abito di corte. |
La sorte ha voluto che l’immagine giunta fino a noi di Donna Franca sia quella che desiderava lei e non la gelosia del marito, l’immagine di una donna bellissima, l’incarnazione di un gusto e di un’eleganza ricercata che anticipava la sua presenza in tutto il mondo dell’epoca.
Il quadro si trova a Villa Igiea a Palermo secondo la sua locazione originaria, ora è in mostra a Roma ma sarà battuto all’asta quanto prima, sperando che il suo acquirente abbia il buon cuore di donarlo alla città simbolo della famiglia Florio che tanto fece per la Sicilia.
Vorrei avere io quel milione di euro che serve per custodire per sempre la bellezza di Donna Franca ma ahimé ho la Postepay a tre zeri: 0,00.
Un altro quadro, un’altra donna, un’altra storia, il ritratto di Adele Bloch-Bauer, dipinto da Gustav Klimt nel 1907. Adele era la figlia dell’imprenditore austriaco Maurice Bauer e sposa il Barone Bloch, un ricco industriale dello zucchero nella Vienna dei primi del ‘900. Klimt la dipinge rendendola per sempre l’immagine della femme fatale, con il suo sguardo seducente e quell’oro suggestivo che caratterizzò il periodo di Klimt intorno al 1905-1907.
Adele e il marito decisero che il ritratto e altri tre quadri di Klimt sarebbero stati donati alla Galleria del Belvedere di Vienna dopo la morte di lei ma durante l’occupazione nazista il barone, in quanto ebreo, dovette fuggire in Svizzera per evitare la deportazione e tutti i suoi beni requisiti.
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Ritratto di Adele Bloch Bauer, Klimt. |
Così i nazisti riuscirono a esporre il ritratto di Adele alla Galleria del Belvedere e diventò il vero simbolo di Vienna, ammirato nel resto del mondo e simbolo di quel gusto passato alla storia come “Secessione Viennese”.
Ironia della sorte, una donna ebrea la cui famiglia è stata depredata di tutto e perseguitata diventa il simbolo di una città che ha visto nascere e crescere il regime nazista, questo è l’aspetto più assurdo di questa vicenda che si è conclusa nel 2006 quando Maria Altmann, nipote di Adele e del Barone Bauer nonché legittima erede di tutti i suoi avere grazie al testamento siglato nel 1945, decise di intraprendere una dura e lunga battaglia legale contro la Repubblica d’Austria per riavere i quattro quadri di Klimt, in particolare il ritratto di sua zia Adele.
Maria che scappò negli Stati Uniti per sfuggire alla persecuzione degli ebrei, ottenne il diritto di riavere i quadri di Klimt, staccati con grande smacco del destino dalle sale della Galleria del Belvedere di Vienna e portati in America dove furono venduti per 300 milioni di dollari nel 2006, ora il ritratto di Adele Bloch-Bauer è esposto alla Neue Galerie di New York di Lauder, il legittimo proprietario. Per 135 milioni di dollari fu il quadro più costoso al mondo.
(Su questa vicenda è uscito un meraviglioso film “Woman in gold” diretto da Simon Curtis).
Spesso l’arte non è avvolta da lustro e magnificenza come crediamo, spesso l’arte è vittima della sua stessa storia e quel che ci rimane è un’immagine anche crudele di quello che fu.