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Uno dei migliaia di hashtag usati per questo genere di trend. |
I social ormai sono parte effettiva e integrante della nostra vita e grazie a geotag, foto e condivisioni ogni giorno riusciamo a scoprire qualcosa di interessante, di nuovo e di curioso. Chi ha la fortuna di avere bene in mente cosa vedere e cosa no sui propri profili può scindere le cose di gusto e le cose totalmente estranee al proprio interesse, così gli amanti di gioielli sono invasi da diamanti e parures da brivido, chi invece opta per il food allora può sbizzarrirsi tra piatti minimal fotografati asettici dall’alto e ricette.
Instagram in particolare è diventato terra di tutti e terra di nessuno, un pianeta dove ognuno esprime creatività, dimestichezza con l’obbiettivo fotografico e un pessimo, tremendo gusto estetico.
Non voglio essere frainteso, Instagram è il social che più utilizziamo per rimanere in contatto con persone con cui abbiamo un feeling, virtuale e non, che ci permette di essere sempre sintonizzati su quello che fanno, su quello che visitano, su come vestono e che locali frequentano, così da arricchirci o ispirarsi.
Quante volte abbiamo visto la foto di un posticino carino dove fare una buona colazione nella nostra stessa città ed esserci andati? O uno scorcio di un museo che non conoscevamo e che ci ha fatto prenotare il treno per quella nuova città? Ecco, questo è un modo intelligente di utilizzare i canali social secondo le proprie passioni, aprire gli orizzonti ed essere spinti verso l’esterno.
Come tutte le cose però c’è un rovescio della medaglia che sta venendo a noia più dell’enorme quantità di sponsorizzazioni non pertinenti che ogni 3 foto compaiono nel nostro profilo, ovvero l’esagerata finzione a cui siamo soggetti.
Nessuna demonizzazione e nessuna critica specifica, la mia vuole solo essere un’analisi che penso sia comune a tanti. Instagram è sì la nostra immagine, un album fotografico delle nostre comuni vite e un fotoracconto aggiornato di quello che facciamo, e come tutte le immagini scelte a tavolino da mostrare agli altri è ovviamente un po’ “ritoccata”.
Com’è giusto che sia.
Se a una serata elegante mettiamo il nostro abito “buono”, lo stesso faremo su Instagram, mostreremo il lato elegante e ricercato di quello che facciamo, indossiamo, mangiamo e visitiamo. È più facile che fotograferemo un bel piatto e una bella tavola apparecchiata piuttosto di una ciotola di plastica in cui sbattiamo l’insalata della busta, ed è giusto così.
Il lato ridicolo però è l’esagerazione di questa ostentata perfezione che si trasforma in fastidiosa finzione percepita magari non al primo sguardo ma che non sfugge a un occhio un po’ più attento e osservatore.
L’esempio lampante sono le foto delle colazioni, trend del 2014, viste ancora nel 2015 e nel 2016 e straviste (purtroppo) nel 2017. Non è il cappuccino decorato dell’affezionato bar appoggiato sul bancone dove siamo soliti correre prima dell’ufficio, ma quei banchetti nuziali spacciati come spontaneo inizio-giornata piene di cose trovate in giro per casa per fare contorno allo scatto.
Il set è sempre quello, un lenzuolo, un piumone bianchissimo o un pianale di marmo con venature più scure, al centro dell’immagine un caffè una cioccolata un cornetto, fin qui tutto normale, se non fosse che attorno trovi di tutto.
Bacche, fragole, arance, mele, pere, limoni, orologi, papillon, braccialetti, fiori ah i fiori quanto piacciono come se prima di fare colazione scendessimo sempre a comprare peonie fresche 50 euro al mazzo, fiori finti (nelle peggiori sottocategorie), piedi pelosi e scarpe vicino a biscotti, torte di mele, profumi, occhiali da vista e da sole, vestiti piegati (vicino al caffè sopra al piumone? Io farei una strage subito), burriera, sale e pepe, grattugia, una corda da barca (lo giuro) e poi cucchiaini, cucchiaini ovunque sparsi a coprire i vuoti e a creare casuali simmetrie.
Alla spontaneità della foto poi si aggiunge la spontaneità del destinatario con 45 tag di pagine che condividono simili contenuti nella speranza del repost e dei like a cascata, e un infinito elenco di hashtag senza senso (#GayBreakfast gay hanno una loro categoria o #CaffeineCouture una nuova linea d’abbigliamento) perché non si sa mai che qualcuno ci caschi.
Anche il New York Times è un classico complemento d’arredo, fa nulla se si abita a Gela o a Melegnano, è il giornale straniero che si abbina al meglio a una colazione veloce (?) da fotografare arrampicati su sedie, tavoli e banconi. Più è alta l’inquadratura più scattano i like? Mistero.
E come se non bastasse i protagonisti più accaniti di questo trend dal lenzuolo bianco e bacche di ribes anche il 15 di dicembre, sono anche commentatori seriali di altri profili, di altre colazioni, di simili set.
Sarà un caso? Per alcuni è evidente che a legarli c’è un rapporto anche nella vita reale, per altri invece è evidente si nascondano le relazioni dovute ai “Follow for Follow?” “Comments for comments?” di gruppi nati per sostenersi a vicenda.
Si viene selezionati per numero di followers e contenuti simili, si richiede di essere attivi con gli altri profili iscritti con like e soprattutto commenti, perché più sono i commenti e più sono gli effetti a cascata per attirare nuovi followers. L’obbiettivo comune? “Aumentare l’engagment” (cit.)
Sostenere amici e profili affezionati è cosa buona e giusta ma non quando si sfiora l’esaltazione o per l’appunto, la finzione.
Così i commenti sono sempre gli stessi “Bellissimo/a tu”, un selfie, “Bellissimo scatto”, un banalissimo monumento visto e stravisto, “Mi fai venire voglia di fare di nuovo colazione”, un caffè della moca e una brioche confezionata, “Vorrei essere lì”, uno scoglio qualsiasi di una qualsiasi spiaggia ligure, “Li voglio”, braccialetti di bigiotteria, “Wow”, una mozzarella in busta Santa Lucia (GIURO) che ha ispirato 8 righe di didascalia melensa sul senso della vita e sulle ricette per l’estate.
Su questi scatti e su questi profili indubbiamente piovono like commenti e richieste di collaborazioni da varie aziende ma forse manca il senso critico, oltre che del gusto, di capire che i propri followers non sono tap tap passivi che non colgono la finzione e le strategie che si nascondono dietro ogni scatto postato e che spesso è tutto molto triste e ahimé evidente.