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Channel: Pezzenti con il Papillon
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JENNIFER ANISTON SI SPOSA E CIAO ANGELINA

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E CIAOOOOOO
Questo è uno di quei post che speravo di scrivere almeno una volta nella vita, uno di quelli che non arrivava mai perché situazioni, complicazioni e brutti gossip rovinavano tutto.
La notte scorsa JENNIFER ANISTON sposa in gran segreto il fidanzato da 20 carati Justin Theraux, 44 anni, bello e ricco, e che pare voglia fare felice quella nostra grande amica che è Jennifer, colei che per noi è diventata la cugina sfigata in amore, sedotta e abbandonata, che ha superato quella batosta di vedere il marito fuggire con Miss Oh quanto sono bella brava e modesta che è Angelina Jolie, quella maledetta.
Ho sempre fatto parte del team Jennifer Aniston perché non ho mai sopportato la forzatura mediatica di Angelina e quel suo personaggio in cui perfezione, bellezza, bravura sembrano convivere solo in lei, unica al mondo. Fa nulla se ha distrutto la coppia del secolo, fa niente se poi Jennifer è stata etichettata come il brutto anatroccolo di Hollywood mentre lei faceva la vamp con il suo ex marito.
Poi quando sono arrivati i figli presi qua e là dai 5 continenti è stato un continuo evidenziare il lato umano e materno, quel fare radical chic per cui parevano la famiglia del Mulino Bianco. Sì, ma con baby sitter, scuole da milionari, personal trainer. E i viaggi in aereo in economy? Tutti a millantare l’umiltà di Brad e Angelina, salvo poi l’isola del Pacifico affittata solo per loro per le vacanze.
UMILTA’, CERTO.
Beh Jennifer, zitta e tranquilla, probabilmente con una camera cosparsa di foto di Angelina per i riti satanici, ha sopportato anche quel matrimonio da copertina, con addirittura l’abito realizzato con i disegni dei figli. Una cosa stomachevole che nemmeno fosse Madre Teresa di Calcutta in qualche villaggio sperduto dell’India.
Ora finalmente ha al dito qualche dozzina di carato, un diamante grosso come un’albicocca, un marito e un sorriso che noi non abbiamo mai finito di amare.
JENNIFER ANISTON non è una qualunque, è la nostra musa. Quante volte ci siamo detti “Se ce l’ha fatta lei”, se ce l’ha fatta lei a superare la rottura con Brad e vederlo per tutta Hollywood con quella che tutti reputano una figa dell’Universo, e ci sentivamo più forti anche noi. Eppure ce l’ha fatta, lei, la nostra stella guida, perché siamo stati con lei a ogni fidanzato, a ogni pianto in pubblico, a ogni intervista in cui le chiedevano “Allora quando ti sposi?”, a ogni rottura e a ogni “Dai, questa volta ce la fai Jennifer”. Lì con lei come fosse nostra amica.
Come fossimo davvero con lei su quel divano di pelle. Come veri FRIENDS.

5 CANZONI PERDI-DIGNITA'

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Siccome la dignità è quella cosa che perdiamo ogni giorno sempre più sui social come fosse carta igienica, strappo dopo strappo, fino a quando rimane solo il rotolo di cartone e pensiamo “E ORA?” ho deciso di fare un piccolo e leggero elenco delle canzoni PERDI-DIGNITA’.
Quelle canzoni, oggettivamente brutte, con parole che tu non conosci perché le hai imparate in un inglese tutto tuo quando eri in quarta elementare e che ormai rimangono fossilizzate così nella mente per sempre, che hanno però su di te un effetto disinibitorio.
Perché magari eri a Ibizia vestita in total-cavallino e l’hai ballata sul bancone della discoteca, o perché ti immedesimi in chi la canta con tanto di balletto preciso e imparato nei minimi gesti.
Ecco le mie 5 canzoni:
CRAZY IN LOVE: ormai lo sanno anche i muri. Quando sento le prime note di questa canzone io perdo il controllo di polsi, cervicale, glutei e gambe. Non importa dove sei, chi sei e cosa fai, se Beyoncè inizia a cantare tu devi ballare o farti tenere fermo con una sparachiodi. Se poi c’è un ventilatore allora è proprio immedesimazione pura, con tanto di bikini, pelliccia e orecchini a lampadario, con la voglia di dare un calcio a un idrante e fare la sensualona sotto il getto d’acqua.

IPNOSI
 WHO DO YOU THINK YOU ARE: le Spice Girls sono le madri genitrici di canzoni perdi-dignità, ma la mia incontrollabile preferita è questa. Perché nel video Geri è una sposa con la tiara, Emma è vestita di lattex e Victoria ha una coda di cavallo tiratissima che quasi le sanguinano le tempie. E quanto si divertono, e quanto ci fa ballare le chiappe quella canzone, di cui ancora oggi ignoro completamente parole e significato, non il balletto che invece conosco a memoria.
STORIA.
BABY ONE MORE TIME: tamburellando la matita sul libro e la punta del mocassino da collegiale sulla gamba del banco, poi top e via con il balletto nella palestra della scuola. Quante volte ci siamo messi a urlare la frase MY LONELINESS IS KILLING MEEEEEEE in casa con il deodorante in mano, o in macchina mentre quello dietro pensa siate stati assaliti da un malore, e invece NO, è solo quell’amore sconsiderato per il trash che necessita sempre di una ONE MORE TIME.
 
 
Tamburello sul libro.
BATTE FORTE: una canzone di nicchia, che unisce una certa élite di persone con lo stesso quoziente intellettivo e lo stesso livello di disagio. Le Lollipop hanno rispolverato lo Zanichelli facendo tornare di moda la parola INESORABILE che da quel momento vive in simbiosi con quel ritornello nonsense BATTE FORTE INESORABILE QUESTO AMORE SENZA LIMITE cantata dai più durante l’attesa della 90 in una divertente notte di primavera su Viale Zara. Momento epico 2015.
 
TRASHISSIMO.
I WANNA DANCE WITH SOMEBODY: perché quel sapore anni ’80 tutto spalline e colori fluo hanno un gran potere su di noi. E Whitney con questa canzone ha esattamente colto quell’imperituro punto per cui “Non mi caghi e allora io ballo con qualcun altro”, che magari ha quel tocco di bacino in più che mi fa fare bella figura mentre le mie amiche fanno tappezzeria al bancone del bar. Canzone irresistibile, degna colonna sonora di pazze serate in discoteca, qualsiasi generazione, qualsiasi età.
LE BASI.
Perché ai 28 come ai 12, ballerai quelle canzoni senza dignità.

HVAR: L'ISOLA CHE C'E'

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Hvar vista dal porto.
 
Angoli da Poser.
Se siete nella fase azzurro/blu/bianco di Instagram, l'isola di Hvar in Croazia è il luogo giusto per un pellegrinaggio cromatico. E' infatti uno di quei luoghi al mondo dove arrivi senza aspettative vacanziere, dettate dalla tua pigrizia, e rimani semplicemente sbalordito dalla meraviglia del paesaggio, dagli scorci che sembrano suggestive cartoline, dalla bellezza di ogni singolo angolo.
Partendo da Pescara con la compagnia Snav, un catamarano in sole 4 ore di navigazione vi farà attraccare a Hvar, considerata una delle dieci isole più belle al mondo insieme a Capri, Ponza, Mykonos, Zanzibar, Bora Bora ecc.
 
(Consiglio: se soffrite il mal di mare meglio prendere questa pasticchetta, la XAMAMINA, che vi rintontirà talmente tanto da trovare la pace dei sensi e non sentire il dondolio della barca. Se invece state molto male, potrete sempre fare amicizia con lo staff napoletano e ritrovarvi a fare un aperitivo privato con il comandante nella cabina di pilotaggio, come è successo a noi).
Oltre al viaggio in prima classe sono stato fortunatissimo con l'alloggio, perché se a Rimini ho dormito in una stanza dai muri gialli spugnati che è un vero incubo estetico, a Hvar abbiamo trovato una splendida casetta nel pieno centro storico, ai piedi dell'antica fortezza con una piccola veranda, due camere, due bagni, l'angolo cottura e una strana cosa che perde sangue nel surgelatore di cui è meglio non approfondire la provenienza. La casa l'ho trovata su Airbnb che risolve sempre problemi di budget e povertà, ed è QUESTA con la possibilità di ospitare fino a 6 persone.
Portoni azzurri per il bene del vostro Instagram.
 
Hvar è un'isola affascinante e ricca di storia, il suo centro è un costante viaggio nell'atmosfera mediterranea in cui la pietra locale si scontra con il profondo blu del mare, un'altura viene sovrastata dalla fortezza che con le sue mura abbraccia l'intero profilo dell'isola. Vista dal mare poi è qualcosa di suggestivo, obbligatorio.
 
Più che la macchina vi consiglio il motorino ma se avete pochi giorni a disposizione allora meglio vivere senza mezzi cingolati e godersi lo sciabattare dei sandali di cuoio sulla pietra e le escursioni in barca. Con 40 kune infatti (poco meno di 6 euro) si può fare andata e ritorno per le isolette intorno che sono raggiungibili in 20 minuti e sono guidate da aitanti 12 enni del posto che fanno manovra uscendo dal porto bevendo un frappuccino. Giuro.
Bellissime le escursioni a Mlini e a Palmizana, due isole dove l'acqua è talmente bella che passerete la giornata a dire "MA GUARDA CHE ACQUA" e a fare milioni di foto senza filtri perché solo la realtà rende giustizia a quei colori.
 


Zarace.
 
Se vi piace l'atmosfera da scogli dove poter giocare alla Sirenetta allora Hvar è il vosto posto, appollaiati su rocce e sassi da dove tuffarsi senza paura come in un film di Muccino sarete felici e spericolati. Pochi bambini, qualche nudista discreto ed educato, un mare pazzesco e una scomodità ripagata dal paesaggio che difficilmente non vi conquisterà.
Le spiagge piu' belle sono: Dubovica, si arriva scendendo un'altura ma fanno un mojto buonissimo da bere mentre cala la luce del tramonto, tutto molto suggestivo se avete anche il partner da limonare (non era il nostro caso). Zarace, qui le due spiagge sono incredibili, una piu' selvaggia con un piccolo promontorio a picco sul mare che fa venire i brividi da quanto è bello, l'altra invece ha un ristorantino vista mare dove cucinano un pesce eccezionale e con 21 euro a cranio il pranzo è servito lasciando nel piatto solo la testa di quegli sventurati ma ottimi gamberi fritti.
 
Molto belli sono gli scogli intorno a Hvar, il mio consiglio è quello di camminare lungo il mare, oltrepassando il porto a destra o a sinistra, e scegliere il vostro angolino di tranquillità in cui poter cantare la Sirenetta e fare le foto da poser senza che qualcuno vi giudichi. Evitare la spiaggia di Mlina, l'unica che non mi ha entusiasmato particolarmente.
 

Angoli di casa.

Ma veniamo al punto fondamentale. La fauna locale. E qui ci vuole una bella sottolineatura. MAI VISTI COSI' TANTI BEI RAGAZZI E BELLE RAGAZZE IN UN POSTO SOLO. E lo dico davvero. Se come me amate avere intorno persone belle, curate, ben vestite e non cafoni da Rimini con borsello e costume del Brasile, Hvar è il posto in cui dovete per forza andare. Ragazzi bellissimi provenienti da tutte le parti del bel mondo. Turchi, svedesi, inglesi, americani. Biondi, magri, muscolosi, bruni, alti, bassi, in canotta o camicione fresco di lino e sandali, in barca, senza barca. Addirittura un gruppo di 7 spagnoli muscolosi che poi si scopre essere un'intera squadra di pompieri di Siviglia. 911 STO ANDANDO A FUOCO (cit.). Ce n'è per tutti i gusti e garantisco la caduta della mascella almeno dieci volte al giorno.
 
 
E CIAOOOO.
 
Per i discotecari e i viziosi notturni, Hvar è una meta di divertimento molto ambita, ci sono localini sul porto dove ballare fino alle 2 di notte e poi continuare nelle discoteche più interne, ma con prezzi che considero quasi esagerati, ma vista la qualità del rimorchio, forse saranno ben spesi. Dico forse perché a me la palpebra si chiudeva intorno alla mezzanotte quando con i miei sandaletti trasparenti, quasi di cristallo, tornavo a casa trascinandomi sulle salite gradinate.

Ma doveroso un salto al Hula Hula dove fanno l'aperitivo più scatenato dell'isola, dalle 18 alle 22, un po' Formentera, un po' Ibiza, ci si diverte e ci sono due attrazioni speciali: il sosia di Morgan Freeman e un tramonto da Instagram senza filtro alcuno che vi mozzerà il fiato quanto quell'israeliano che balla al centro della pista in costume.
Hvar è un'isola magica per chi capisce la bellezza di una storia antica, di un mare che davvero ti fa venire il magone quando stai per salutarlo e di chi ha la fortuna di condividere tanta meraviglia con una splendida compagnia, proprio come l'ho avuta io.
 

 

MERCATINI DELLE PULCI A MILANO: IL VADEMECUM

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Sentirsi ricco ma vivere da povero è un po’ il mio stile, quella sottile allure per cui mi sento un Lord inglese dell’epoca vittoriana improvvisamente catapultato nel XXI secolo senza carrozza, senza domestici e senza bastone con il pomo d’avorio. E Milano non è Londra, ma qui mi sono ben ambientato e ho quegli indirizzi segreti per cui ci si può vestire con poco, a volte pochissimo, ma rimanendo sempre in ordine e quasi alla moda.
Cresciuto a pane, Sissi e mercatini dell’usato ho acquisito da mia madre, vero mastino quando si tratta di spulciare l’affare nelle bancarelle, quel fiuto da cane da tartufo che mi permette di portarmi a casa sempre qualcosa di buono. Così, solidale e altruista, voglio condividere con voi gli indirizzi dei miei mercatini dell’usato preferiti.

VIALE PAPINIANO: martedì e sabato mattina (Metro Sant’Agostino)
Ricordi un po’ del liceo, un po’ dei tempi dell’Università, è il classico mercato cittadino in cui bancarelle di frutta e verdura bio, ambitissime mete di sciure milanesi con borse in vimini e Chanel che fanno la spesa per la settimana, si alternano a quelle di pigiami, mutande, scarpe. C’è di tutto ma di qualità. I banchi dell’usato sono mucchi informi di vestiti anche a 1-2 euro e la mia preferita è quella dei jeans Levi’s lunghi o corti dall’aria un po’ ‘80s ma che con la scarpa giusta danno un tocco vintage impareggiabile. CONSIGLIATISSIMO, sia per la frutta e la verdura, sia perché andare al mercato di Viale Papiniano è un’attitudine molto milanese.
 
VIA BENEDETTO MARCELLO: martedì e sabato mattina (Metro Lima)
E’ una parallela di Corso Buenos Aires, all’incrocio con via Vitruvio. Mentre tutta Milano si affolla nei classici negozi del centro, pochi invece conoscono il mercato di Benedetto Marcello, secondo a quello di Viale Papiniano, a mio parere, ma con una buona dose di fortuna e occhio guardingo ci si porta a casa facilmente qualche maglione informe a 2 euro, qualche jeans, t-shirt dai colori sbiaditi e un bel cappotto a 7 euro. Preferibile il martedì mattina, con una bella colazione grassa e felice alla Pasticceria San Gregorio.
 
VIA PIETRO CALVI: giovedì mattina (Piazza Cinque Giornate, tram 9, 12, 23, 27, autobus 60-73)

La Mecca per le vere sciure della cerchia dei bastioni, quelle belle imperlate e a volte anche un po’ incartapecorite, con badante al seguito o Birkin al polso. È un mercato dove fare degli affaroni risulta difficile ma se state cercando un capo firmato, ben tenuto e a una fascia di prezzo abbordabile, allora vale la pena farsi un giro. In particolare c’è la bancarella dei cappotti tirolesi, Loden e cappe, per l’inverno, che ha sempre delle chiccherie impareggiabili. Non è il mio preferito ma se un giovedì mattina bigiate la scuola o il lavoro è una destinazione che consiglio anche per la bellezza delle vie del circondario, prima tra tutte Via Lincoln.

 
MERCATINO DELL’USATO PENELOPE: negozietto in Via Melloni angolo via Guicciardini (Traversa di Viale Premuda, tram 9-23)
Scoperto per puro caso è l’esempio di come dei giovani ragazzi amanti del modernariato e del design anni ’60-’70 si ritrovano in un sottoscala condominiale e creano uno spazio divertentissimo. Ideale per chi osanna le lampade con lo stelo alto e minimal, le poltrone in colori pastello un po’ Bauhaus, i tavolini da salotto in cristallo e profili d’oro. Poi ci sono vere chicche, tra cui il gigantesco pavone impagliato, le bambole, i cappellini con veletta, le scatole di latta dei biscotti, le varie macchine da scrivere dell’Olivetti, sedie di tutti i generi e tipi, valigie a non finire. Io sono impazzito.
 
MERCATINO DELL’ANTIQUARIATO SUL NAVIGLIO GRANDE: ultima domenica del mese.

Sulle sponde del Naviglio Grande, la Milano che presidia a tutti gli eventi si dà sempre appuntamento l’ultima domenica del mese per il classico mercatino dell’antiquariato. È un rito tra l’hipster e il social, perché molto gettonato e conosciuto da tutti, anche dagli ultimi arrivati in città. Ora che poi si affaccia direttamente sulla Darsena, meta di birre in compagnia e limoni voraci, è impossibile non esserci anche solo passati per sbaglio. Ci si trova di tutto, dai mobili in stile Ottocento a collezioni di ceramiche Fornasetti, dai pizzi della Nonna a borse in coccodrillo anni ’50. La leggenda vuole anche che si sia venduto a poco prezzo un quadro di Frida Khalo senza che il proprietario sapesse cosa aveva tra le mani. Io qui ho comprato un Borsalino a 10 euro con le iniziali dell’antico proprietario, un Montgomery di Burberry’s a 50 euro e una pochette da sera anni ’40 da regalare a una portatrice di sangue blu. Inutile dire che ho fatto una signora figura. In questi mercatini ci vuole occhio e la temperatura giusta, perché a Dicembre il mercato sui Navigli è davvero impegnativo.
 
MERCATINO DELLE PULCI DI PIAZZALE CUOCO: domenica mattina (Metro Brenta/Corvetto)

E qui veniamo al mio preferito in assoluto, l’emblema dei mercatini delle pulci dove davvero se hai l’occhio di lince trovi delle cose meravigliose e 10 euro ti sembrano quasi troppo visto quello che puoi spendere per un jeans o un cappotto. Avvertenze: se siete xenofobi, ossessionati dell’igiene, facilmente impressionabili e Amuchina-dipendenti, non è proprio il posto per voi. Il mercato si divide in due: a destra la ZZ (Zingari Zone) dove vendono a terra nella polvere anche computer, motoseghe, attrezzi elettrici, lavatrici, cellulari e le zingare di contrabbando rispondono con scatolette di tonno, profumi, lubrificanti, noccioline e Kinder Bueno. Vale la pena fare un giro solo per l’atmosfera assurda e le risate che ti fai quando vedi una zingara masticare un pezzo di metallo per capire se è oro o argento colorato. GIURO.
A sinistra invece c’è il mercatino delle pulci classico, con i gazebi in affitto per chi vuole disfarsi di cose vecchie e inutilizzate. Tappa obbligatoria (seconda corsia al centro) la bancarella della signora con i capelli rossi che vende abiti da donna anni ’70-80 e ha anche un’ampia scelta di pezzi Zara Vintage. Poi lei è simpaticissima e ormai è mia amica.
Metà del mio guardaroba lo devo a questo mercatino: il giubbino di renna (5 euro), il Loden (QUEL LODEN! 5 euro), la giacca scozzese (2 euro), le scarpe traforate (3 euro), il cappotto grigio (8 euro), i jeans anni ’80 (1 euro), il cappello stile Borsalino blu (2 euro), le Superga bianche (5 euro) e tantissime altre cose. E’ il mio posto preferito.
Armatevi di pazienza e autoironia e una lista precisa degli obiettivi che volete raggiungere, sono sicuro che troverete i vostri affari, spulciare è davvero un gioco divertente.

QUEEN ELIZABETH 1 - QUEEN VICTORIA 0

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GOD SAVE THE QUEEN.
La storia si ripete. Non vivo in Inghilterra ma con il cuore mi sento un po’ suddito di Queen Elizabeth II e se solo venissi ricevuto per un tè delle cinque a casa Windsor le leggerei i numerosi post di questo blog che millanta quasi una sezione dedicata alla famiglia reale inglese.
Il 9 settembre è una data importante per lei, classe 1926 e primogenita di Giorgio VI, inaspettatamente divenuta Regina del trono più ambito del mondo, perché è il giorno in cui diventa leggenda. Il 9 settembre supera ufficialmente la Regina Vittoria che regnò per 63 anni e 216  giorni, dal 1837 al 1901. (Vi consiglio la biografia “La piccola Regina” di Carolly Erickson).
Da sinistra la principessa Margareth, Elizabeth e la Regina Madre.
Elizabeth supera quindi i 63 anni e 216 giorni di Regno incontrastato ed è un peccato non poter ricordare quel 2 giugno 1953 quando a 27 anni divenne Regina d’Inghilterra, per un segno del destino, perché lei si aspettava di essere la nipote coccolata di Edoardo VIII ma la sua improvvisa decisione di abdicare per sposare Wallis Simpson ha ribaltato la storia. E il destino di questa giovane e ignara Principessa.
Quella di Elizabeth II è una missione. Rappresentare un paese unito, che la ama e la venera, quasi la teme ma per l’amore che ha lei nel rigore e nelle tradizioni, non per l’ira o le ingiustizie. E’ un buon esempio e come ho già scritto in passato (QUI) , l’aspetto più bello e che un po’ invidio agli inglesi, è il poter contare sempre su una figura che da Buckingham Palace ha a cuore il suo popolo e che non ha mai abbandonato la sua Londra per villania o egoismo.
2 GIUGNO 1953.
Come porta i cappellini LEI, NESSUNA.
Questa anziana Regina ha 89 anni, potrebbe essere stanca di cerimonie, feste, scarrozzate, parate, discorsi, visite ufficiali, servizi fotografici, apparizioni in pubblico, inaugurazioni, corse di cavalli e pettegolezzi scatenati da quell’attenzione morbosa dei media che hanno anche causato la morte di Lady Diana. Potrebbe anche voler starsene a casa in vestaglia di ciniglia a fare il Sudoku, e invece ci sorride, indossa il cappellino che commenteremo, la borsetta di cui non conosceremo mai il vero contenuto, la spilla preziosa appuntata sulla sinistra sempre alla stessa altezza, i tre fili di perle che porta fin dal giorno dalla giovinezza e le calze color carne perché lei è l’unica sulla faccia della Terra a cui perdoniamo questo dettaglio.
Io le voglio bene come a una rispettabile Nonna, e vorrei poter dire "Altri di questi 63 anni e 216 giorni".
Non so voi, ma io oggi festeggio con lei e per lei. 
LA BELLEZZA.
 
Il sorriso più bello.
63 ANNI DI RIGORE E BUON COSTUME.
 

IL RITO DEL TE' A MILANO

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IO CON LE MIE AMICHE ALL'ORA DEL TE'.
Ci sono tempi e pause che nel mondo contemporaneo sembrano essersi ormai dissolte, quasi come se non ci fossero più quelle lievi tradizioni che invece scandivano le giornate dei nostri nonni e delle generazioni precedenti. L’ora del brandy, l’ora del cocktail che guai a chiamarlo “Apericena” perché ancora si facevano dello chic un vero e proprio mantra di vita e le parole dovevano richiamare quel senso di raffinatezza. Tutto aveva un codice, dall’abito allo stile, dall’arte del ricevere a quello dell’invitare.
Sembrano sottigliezze frivole se si pensa alle difficoltà della vita ma a parer mio, l’educazione e il savoir faire servono a migliorare la vita di ognuno di noi e di chi ci sta intorno. Perché se tutti ruttassimo e se tutti buttassimo le cose a terra come fossimo degli scimpanzè del Burundi, non so quanto sarebbe bello vivere e avere a che fare con gli altri.
Ora che l’autunno è alle porte e non saremo più in giro a fare gli insiders tra un aperitivo, un sushi e un pic nic al parco perché desideriamo più una zuppa o un minestrone, finalmente iniziano le merende della domenica pomeriggio con tè caldo e biscotti.
La cosa più bella dell’inverno è proprio riunirsi in un caffè dall’aria stantia e decadente con una buona compagnia, che sia il fidanzato di turno a cui si dice “Perché non ti piace il nome Laudomia?” iniziando a litigare, oppure un gruppo di amici con cui si argomentano temi seri quali “Io faccio la cacca SEMPRE dopo la colazione, altrimenti non posso uscire di casa” con successive domande più specifiche. Che sia a casa, con delle tazzine così che fanno esploderePinterest, degne della migliore padrona di casa mai esistita, o in giro per la città.
Un vero e proprio salotto aristocratico che si riunisce nelle sale da tè di Milano, ecco le mie preferite.
POTERE DI PINTEREST VIENI A ME: www.dalani.it


 
COVA:
Il nome fa arricciare il naso perché pare banale e scontato ma non lo è, da Cova parte la storia della sala da tè nella città di Milano e bisogna andarci per forza almeno una volta nella vita. Passeggiare in Montenapoleone avvolti in un bel cappotto, guardare quasi con disprezzo i giapponesi alle prese con la corsa dello shopping più esagerato e imboccare l’antica entrata di Cova, chiedendo un tavolino per prendere il tè. Rigorosamente accompagnato dalla pasticceria mignon. Cova è dal 1817 il luogo ideale dove incontrare le vere sciure milanesi, con doppio nome e triplo filo di perle.
 
TORREFAZIONE CORSO XXII MARZO:
Qui ci metto un po’ di sentimento, perché qui mi ci portava sempre la Nonna a fare colazione prima di raggiungere i giardinetti, la Rotonda della Besana o il mercato coperto. Era il suo posto, piccolo, accogliente, tutto in legno e tappezzeria bordeaux dall’aria liberty. Sopra al bancone alle pareti ci sono questi tubi trasparenti in cui corrono i chicchi di caffè tostati che finiscono in grandi contenitori. Sfido chiunque a non rimaner ipnotizzato per ore. Il servizio è ottimo, i dolci sono una bomba e la clientela è finemente agé. Come piace a me.
 
CAFFE’ TITANIC:
Bisognerebbe andarci solo per il nome e solo per il bellissimo palazzo in cui è situato, in Viale Montenero, di fronte alla Rotonda della Besana che sappiamo essere il mio posto preferito di Milano. Tutto in legno, con quello stile un po’ nautico e un po’ Chicago degli anni ’20. Non è un posto conosciuto da molti ma è un ritrovo del quartiere, e spesso si può sentire qualche signora che racconta dei tempi lontani che furono. E diventa tutto ancora più affascinante.
 
GATTULLO:
Se avete paranoie per la dieta o se da troppo tempo state saltando la palestra con enormi sensi di colpa, la pasticceria Gattullo non è affatto il luogo per voi. Dal 1961 domina la zona (Piazzale di Porta Lodovica 2) con le sue vetrine in cui campeggiano delle torte da appannare i vetri. Dolci in qualsiasi forma, colore, dimensione. È una classica sala da tè con il bancone e le torte esposte, enorme. Fare la colazione da Gattullo, o la merenda, è una delle coccole più autolesioniste e felici che ci si possa concedere.
 
SANT’AMBREUS:

Istituzione milanese situata in Corso Matteotti a due passi da San Babila, è un luogo di pellegrinaggio per i panettoni e le uova di Pasqua artigianali, così come per il rito del tè delle signore dell’alta società.  Il vero milanese è quello che con le mani dietro la schiena, con il suo Loden verde, cammina a passo spedito ma si ferma davanti alle sue vetrine. Impareggiabili quelle torte scultura dedicate alle stagioni o agli eventi. Che sia la moda o il design la pasticceria Sant’Ambreus da’ il meglio di sé. E con un nome così non poteva che essere altrimenti.
Non c’è niente di più bello che una tazza di tè e un po’ di decadenza per superare il rigido inverno milanese, sempre con stile.

VOGLIO SVEGLIARMI LAUREN BACALL

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SENZA PAROLE.
Ci sono due momenti nella vita di ogni donna che un po’ rimpiange la bellezza e l’eleganza degli anni ’50. Il primo è quando davanti allo specchio ci si confessa “Oh, se fossimo negli anni Cinquanta potrei tenermi un po’ i fianchi che sarei considerata bellissima, altro che queste modelle taglia 38”.
Il secondo quello in cui prima di andare a dormire si esprime il desiderio “DOMANI VOGLIO SVEGLIARMI LAUREN BACALL”.
Ogni foto, ogni film, ogni inquadratura, è come un colpo di tizzone ardente sulla pelle nuda contro l’autostima di ognuna di voi. Era troppo bella per essere anche brava, troppo sensuale per essere anche elegante e di una raffinatezza così innata che di certo non si impara a furia di divorare Vogue o studiando i rotocalchi.
Classe 1924, metà polacca e metà rumena, EBREA, emigrata di America con i genitori. Diventa negli anni ’50 una delle attrici più ammirate e apprezzate di tutta Hollywood e fa capolinea nell’Olimpo delle dive nel giro di pochissimo.
Se Marylin aveva l’aria biricchina ed era il prototipo americano del sogno proibito, Lauren Bacall aveva quel gusto europeo e quello stile, quello charme, inconfondibile. Nei suoi film il dettaglio più di rilievo è il suo sguardo, così forte e profondo che sarebbe stata più adatta a lei l’altissima citazione “NESSUNO METTE BABY IN UN ANGOLO”.

Come sposare un milionario, 1953
 
Nella commedia “Come sposare un milionario” con Marylin e Betty Grable, è così meravigliosa che bisognerebbe studiare nelle scuole l’andatura della sua camminata, il portamento e come indossa la stola di visone. Indimenticabile la scena in cui sfila per il milionario Brookman che lei è convintissima sia un garagista, uno che lavora alla pompa di benzina.
Mento alto e portamento fiero, dovrebbe diventare una materia scolastica, al posto di educazione fisica o religione. “Aprite il libro, oggi studiamo il periodo degli anni ’60 di Lauren Bacall”.
 
Forse in questo modo ci sarebbero meno tute in poliestere 100% e più maniche a sbuffo, velette e camminate eleganti.
“Lo sai quanto vale?”
“30 milioni”
“Accidenti”
“Scommetti un milione”
“Sei già stata per negozi?”
“Quando aprono le saracinesche entro io”
 
 
Perché ai tempi si cercava marito affittando un appartamento di classe a Park Avenue e frequentando gli ambienti giusti dove poter incontrare milionari da spennare, sognando diamanti, pellicce e luoghi esotici.
“Sapete chi vorrei sposare io?”
“Chi?”
“Un Rockfeller”
“E quale?”
“UNO A CASO”.
Perché i milionari all’epoca non si cercavano su Facebook. Tantomeno su Linkedin.
E ci vuole charme anche nell'accettare il tempo che passa.
 

IL COMPLETO DA PIOGGIA

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Il mio completo da pioggia preferito.
Fin da piccolo i giorni di pioggia mi destabilizzavano in quanto “meteoropatico” è un aggettivo che hanno voluto coniare sulla mia persona. La pioggia è scomoda e quando sei in giro sotto l’acqua a catinelle ti accorgi di quanto la gente non sappia più stare al mondo.

Traffico impazzito, strade allagate, ombrelli usati come stuzzicadenti per inforcare l’ultima tartina cruditè al party esclusivo dove si beve ma non si mangia, la Galleria che diventa scivolosa e a ogni passo rischi di sembrare Carolina Kostner sull’orlo di un malore.
 
Audrey & Givenchy.
Vogue 1974.
Per non parlare dell’orrenda poltiglia che si creava con la segatura che gettavano a terra all’ingresso della scuola quando pioveva. Ecco, quella è per me l’immagine più esplicita dei giorni di pioggia.

Poi crescendo, in particolare in autunno, ho cominciato ad apprezzare la pioggia, o meglio, più che la pioggia la troppa moda nei giorni di pioggia.

Chi mi conosce sa quanto il mio guardaroba perfetto implica capi che sono uguali e intramontabili da almeno metà secolo e che rappresentano un po’ l’élite tra i 70 e gli 80. I vestiti da “vecchio” insomma.

Non c’è giorno di pioggia senza impermeabile. È come dire che con la neve si esce con il bikini, l’impermeabile è stato pensato proprio per coloro che come me odiano l’ombrello e che preferiscono prendersi l’acqua piuttosto che avere quell’affare che scola e che potrebbe uccidere qualcuno a ogni angolo. Il must è Burberry che però non ha il cappuccio ma il perché è ovvio.
GATTOOOOOO.

Se hai un impermeabile senza cappuccio allora ti serve il cappellino da pioggia in coordinato con la fantasia Burberry, ecco lo spirito imprenditoriale del noto marchio inglese. Io impazzisco letteralmente per l’impermeabile di Burberry e mi pavoneggio quando lo indosso e incontro altri distinti signori che come me non ne fanno a meno durante i temporali.

E poi fa così tanto colazione da Tiffany “GATTOOOOOOO, GATTOOOOOOOO” ma anche un po’ maniaco nel parco.
Non vale se c'è il sole.
Se non è impermeabile è mantella, e qui io felicissimo perché le mantelle e le cappe mi mandano in visibilio. Scomodissime e ti ingoffano più di quanto tu non lo sia già, ma vuoi mettere che scena nascondere la borsa e lo zainetto senza inzupparlo?

Sulle scarpe da pioggia invece sono poco ferrato come quando ero piccolo che volevo sempre mettere scarpe inadatte. Scarponcino, o con la para, sneakers o stivaletti da pioggia (Gli Hunter come quelli di Kate Middleton), ma se avete l’impermeabile classico ci vuole un tocco più street e giovanile altrimenti l’effetto Giorgio Napolitano con mani dietro la schiena è molto probabile.
Classicone sempre perfetto.
Carlo & Diana
Il cappello è indispensabile e quello da pioggia in stile Sampei io lo trovo adorabile. Spesso le case di moda un po’ classica Inglese lo propongono double face, da una parte scozzese, e dall’altra parte impermeabile. Così con una semplice piega si ha l’effetto spiritoso del tartan anche quando diluvia senza rinunciare a quel glamour old style che considero impareggiabile.

Ah, un’avvertenza, RIMORCHIARE NON E’ INCLUSO NEL PACCHETTO, quindi non presentatevi mai e poi mai a un appuntamento con il vostro completo da pioggia perché è la volta buona che davvero ve la fate a piedi fino a casa sotto la pioggia.
Tac, pioggia.

 
 

 

UOMINI: VESTITEVI COSI'

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Non sono affatto uno di moda. Non lo sono mai stato e credo sarà difficile diventarlo in un prossimo futuro, perché troppo abituato ai classiconi del guardaroba piuttosto che alle frivolezze dell’evolversi di ogni stagione sfilata dopo sfilata. Un anno va il tartan e ce lo annunciano come fosse un nuovo mondo scoperto, così come altre banalità di moda che affondano le proprie radici nella storia del costume, che di certo non ha inventato Jeremy Scott con le magliette stampate con il Cif sgrassatutto.
A mio modestissimo parere l’uomo può avere nel guardaroba mille cianfrusaglie da buttare ogni stagione ma ci sono alcuni capi intramontabili che per risparmiare dovremmo comprare oggi e indossare fino a quando andremo a controllare i lavori in corso ai cantieri.
Questo è un vademecum per chi ha quello stile un po’ vecchio, non per chi segue le mode e veste Frankie Morello.
 Il BORSALINO
O più in generale il cappello, che sia la coppola, la bombetta, il Borsalino a tesa piccola, quello a tesa più larga o il classico Fedora. Perché lo indossiamo adesso con le Stan Smith e una giacca più sportiva e lo porteremo domani con il cappotto spigato per andare a giocare a bridge con gli amici sopravvissuti. Un uomo senza il cappello è un uomo senza pelo sullo stomaco.
Un classicone.
 
 
IL LODEN
In un solo cappotto l’espressione della vecchiaia ma anche dell’estrema disinvolta eleganza. Verde con i bottoni tirolesi in cuoio, con il taglio alle spalle e con la pences sulla schiena, così quando farete una giravolta l’effetto sarà una deliziosa ruota. E’ proprio facendo una giravolta con il mio nuovo Loden che ho tirato giù mezzo scaffale in un negozio di scarpe del centro, d’altronde goffo come Pippo è il mio secondo nome.
Il mio preferito.
 
LA RENNA
Altro intramontabile classico, se avete la fortuna di indossarlo prima dei 30 anni perché ereditato o comprato in un mercatino, vi accorgerete quanto in giro per strada lo usino solo pensionati e signori bene, distinti e impeccabili. E vi sentirete parte della crew.
Quella del Papà è sempre più bella.
 
IMPERMEABILE
Più che trench. E il bavero alzato solo se siete Cary Grant o avete 69 anni compiuti.
Che sia Allegri o Burberrys
 
IL BARBOUR
E’ molto borghese ma è la giacca usata dagli inglesi per andare a caccia nei loro manieri di campagna, e chi siamo noi per non sentirci un Lord nelle praterie del Devonshire anche quando torniamo a casa con la carta igienica sottobraccio? Lo indosso da quando avevo 7 anni ed era il mio preferito. Avvertenza: le sue tasche sono così grandi che le chiavi di casa saranno l’ultima cosa che riuscirete a tirare fuori all’occorrenza.
A caccia nel Devonshire.
 
LE COLLEGE
Il classico mocassino a punta tonda con la pelle verniciata che da sempre i bravi ragazzi indossano fin da piccoli. Bordeaux tutta la vita, blu come secondo paio, anche quelli spesso si ereditano dai nonni o dai prozii. Se poi ci abbinate il maglione tennis bianco, vincete l’oro olimpico della troppa moda.
Sempiterne.
 
GUANTI DA GUIDA
Non è necessario possedere una Mustang o una Porsche anni ’70 per indossare i guanti da guida e fingere uno stile da grand viveur, basta anche solo una bicicletta sparata a tutta velocità su Viale Zara perché siete in ritardo per l’allenamento di nuoto.
STUPENDI.
BRETELLE
Ho scoperto di non amare affatto le cinture, e che trovo più bello un pantalone senza cintura o per l’appunto con un paio di bretelle dalla fantasia sobria. Blu a pois bianchi, renne per il Natale, fiocchi per le feste più esclusive, a motivi tirolesi per quando ci sentiamo parte della famiglia Hildengammer.
 
L'effetto non è mai quello però.
PAPILLON
Avete letto il titolo del blog? Qui non ci sono regole se non quello di sbizzarrirsi con il più estroso dei colori, con il più accecante dei motivi floreali. Anche il più serioso avvocatuccio di Busto Arsizio troverà un po’ di smagliante simpatia.
 
PIANGO.
CAMICIA
Fondamentale quella bianca, tanto carina quella rosa, indispensabile a righine. Niente maniche corte, le maniche si arrotolano e non saranno quei 30 centimetri di tessuto a farvi sudare di più ma sicuramente vi faranno sembrare più socialmente frequentabili. Le cifre cucite al terzo bottone a sinistra, no sui polsini, no sul colletto. Un piccolo monito: la camicia sempre sempre più chiara della giacca.
Non ci sono regole nel vestirsi, o meglio, ognuno trova le sue, ma se abbiamo dei punti fermi che da decenni non vengono spazzati via dall’effimera velocità della moda allora affidiamoci e peroriamo la causa. E poi, volete mettere la comodità di poter rubacchiare qua e là negli armadi dei nostri parenti capi che loro hanno comprato e che noi sfoggeremo?
Lo shopping migliore lo si fa nel guardaroba del proprio albero genealogico.

 


 

SCARPA DA VECCHIA FA BUON BRODO

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Cosa direbbe Coco?
È arrivato quel momento dell’anno in cui vestirsi può essere una scommessa, un po’ per il tempo, un po’ perché ancora non abbiamo capito cosa dall’alto ci venga imposto come tendenza assoluta. Chi segue le mode e butta ogni stagione via quel che ha comprato pochi mesi prima perché su Instagram non va più e la socialite di turno disse che è out, sicuro è come un giocoliere in bilico.
Le riviste un giorno danno per scontato quello stile colorato ed eccentrico anni ’60 per poi rivalutare subito, senza preavviso, appena 1 mese dopo, i pantaloni oversize, le mantelle da Nonna di Cappuccetto Rosso e le scarpe dal tacco quadrato.
E in tutte le case c’è quel momento in cui una madre al cambio di stagione mostra alcuni abiti alla figlia che segue la moda ma ancora non ha quella personalità evoluta per cui riesce a scegliere senza essere influenzate dalle pseudo bloggers e dalle it-girls dei social.
“Ti piace questa o la do’ via?” alzando in volo una pochette di coccodrillo anni ’40.
“Ma no Mamma, quest’anno va la lucertola dai, che roba brutta”.
E via il prossimo pentimento quando improvvisamente si scopriranno tutte intenditrici di vintage e chi non possiede una borsetta da giorno in coccodrillo a clip rimane una derelitta.
“E queste scarpette aperte dietro con tacco 7 quadrato? Sono nuove”.
“DAI MAMMA FANNO CAGARE CHE SCHIFO”.
E sono le classiche Chanel bicolor, le slingback.
Non so chi sia.
E qui si consuma la tragedia. Dovrebbero studiare quello strano fenomeno per cui durante la vita a periodi alterni odi dei vestiti che poi però cerchi disperatamente e ti mangi anche la tibia quando ti ricordi di averli regalati a chissà chi.
Quelle scarpe che prima ti sembravano da vecchia e passate di moda, soffocate dal tacco a spillo, dall’open toe, dal sabot, dal plateau, si rivelano invece l’ultima tendenza insieme a Levi’s 501 di papà alti in vita con risvoltino finiti in pezzi per smerigliare le porte di casa.
E solo perché sono Chanel e le indossa qualche it-girl che se la sente calda nell’ultimo periodo, tu non ci dormi la notte e chiedi di essere assunta al Mc Drive di notte pur di spendere 650 euro e sentirti una di loro.
Bellissime, ma la loro bellezza non è quella di essere state indossate da una Chiara Ferragni piuttosto che Gilda (che le ha abbinate a una maxi maglia Moschino con cui sembra il fustino di un detersivo in offerta) ma per il design pensato e realizzato da Coco Chanel.
Capite?
Il clamore di una scarpa bicolore per l’eleganza femminile era negli anni ’50 impensabile perché era un accostamento tutto maschile e Coco le aveva ideate per una donna che ama essere elegante e comoda di giorno così come durante un cocktail serale.
Qui sta il loro fascino. Nessun genio del marketing, nessuna advertising furbetta, la loro bellezza è nella storia che rappresentano e in quei piedi che le hanno calzate.
Piedi di donne meravigliose come Romi Schneider e Lauren Bacall, che non hanno mai postato una foto su Instagram ma che sono muse di stile e grazia ancora oggi a distanza di svariate decadi.
L'occhio severo di Coco sulla perfezione di Romi Schneider.
 

DA VECCHIA.

56 ANNI DI GIOVINEZZA

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"HO 56 ANNI LO GIURO".
Barbie è un'eroina del mondo contemporaneo, un bagliore di luce e speranza con due tette che stanno esattamente nei flute di champagne. Quante, ma anche quanti, di voi non facevano altro che passare con lei tutto il pomeriggio facendole assaporare almeno dieci vite diverse? Poteva andare al mercato, due minuti dopo partire per la spedizione della Nasa (sempre coi tacchi ovviamente) e cinque secondi dopo arredare la sua casa tutta rosa coronando il sogno di un'esistenza senza mutuo.
 
Com'è nata la famosa Barbie? Barbie non ha mica un nome così comune, all'anagrafe infatti è Barbara Millicent Roberts, quasi aristocratica la ragazza.
Barbara era la figlia di Ruth Handler che insieme al marito creò la Mattel, l'idea le venne guardando la figlia che alle sue bambole di carta dava il ruolo di donne adulte, si era stufata di giocattoli che rappresentavano neonati. "Basta cacche e pannolini, io voglio che la mia bambola vesta come una ballerina di lap dance con una tutina leopardata" avrà urlato in lacrime.
 
Era il 9 Marzo 1959 quando Barbie fece il suo ufficiale debutto in società. Venne costruita in Giappone, ecco il segreto dei suoi capelli liscissimi (lontani ancora gli esperimenti liscio perfetto di Yuko Yamashita). Il suo primo outfit? Degno di una vera ragazza di buona famiglia, un costume zebrato, tacco a spillo e una lunga coda e ne vennero vendute 350 mila in un tempo record.
Il dilemma della nascita di Barbie è che ha decine di sorelle ma non una madre, un po’come Brooke Logan. C’è Skipper, odiata da tutti perché è l’unica coi piedi piatti e non le stavano le scarpe con il tacco, poi le sconosciute Stacie, Shelley & Krissy. La sua migliore amica, altra sconosciuta, è Midge, che si è anche sposata con Alan ma Barbie non era presente altrimenti ci sarebbe una “Barbie testimone di nozze”. Barbie è un esempio da seguire, non è razzista visto la quantità di amiche e amanti giapponesi, africani e indiani. La più famosa è Christie, la bellissima ragazza di colore con gli occhi neri neri vestita Benetton. Inoltre ha rappresentato 50 nazionalità diverse, diventando lo specchio del mondo.
 
 
La sua più grande passione è la moda. Vestita dai migliori stilisti, da Valentino a Versace, da Benetton a Yves Saint Laurent. Migliaia le scarpe di tonalità rosa/fucsia, vestiti cortissimi e top che scoprivano la pancia, un addome piatto scolpito dalle lezioni di Pilates. Un sedere sodo e a mandolino, mutandoni perenni e un sorriso da starlette. Il trucco sfumato, le ciglia lunghe disegnate e i CAPELLI. Il suo punto forte erano proprio questi capelli, biondi, lunghi e setosi che tutti noi pettinavamo spezzandole l’osso del collo, fino a rasarla a zero prima ancora di Britney Spears.
Ha avuto 38 animali tra cani, gatti, conigli, addirittura un panda, una zebra e un cucciolo di leone. La sua più grande storia d’amore è Ken, il californiano abbronzato e muscoloso, sorridente come un ebete e un ciuffo all’avanguardia. Ken perennemente nudo perché era inutile vestirlo, non ho mai conosciuto qualcuno che comprasse i vestiti a Ken. Aveva sempre e solo una camicia di jeans, al massimo a quadretti da boscaiolo. Inenarrabili le storie di sesso che si improvvisavano, ricordo che Barbie andava al mercato a fare la spesa con la sua Ferrari bianca e una volta tornata trovava Ken nudo come un verme che al posto di lavare il Camper rosa era sempre sdraiato a non far nulla. Cazziatone poi sesso.
 
Barbie invece non si ferma un attimo, è stata ginnasta, astronauta, acrobata, papessa, cantante gospel, esploratrice, pilota d'aereo, hostess, veterinaria, primo ministro, principessa, sirena, infermiera, pizzaiola, professoressa, cantante, bagnina, cuoca, imprenditrice. Non è affatto snob, al contrario si adatta ad ogni situazione.
 
Ken e Barbie sono stati una coppia di fatto fino al 2006, quando si sono sposati ufficialmente. 43anni di fidanzamento sono lunghi e difficili ma  loro si sono sempre amati, hanno avuto una sola crisi in cui Barbie si è fatta affascinare dall’esotico surfista Blaine, un flirt durato poco, un’avventura estiva consumata sotto una palma di Miami, poi è tornata strisciando da Ken in versione “Barbie adultera” con un sufflè di mele.
Da quel giorno in cui nacque Barbie sono passati 56 anni e sul suo viso non sono comparse rughe ma zigomi alti, trucco perfetto e una forma fisica invidiabile. Forse è un modello estetico sbagliato, forse è solo un timore di genitori apprensivi, forse è la sorella, l’amica o la nemica che avremmo voluto avere, ma tutti abbiamo vissuto con lei un’avventura frutto della nostra arguta immaginazione.
E quanto era divertente, quanto.
A celebrarla una mostra “BARBIE THE ICON” che ripercorre la sua storia al Museo Mudec di Milano dal 28 ottobre 2015 al 13 Marzo 2016.
Io ci vado, e se vedo la villa rosa con l’ascensore mi metto a piangere, perché ancora la sto aspettando da Babbo Natale.
 
 

 

CLOCHARME: STILE & POVERTA'

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Fermi tutti. Clocharme è l’evoluzione Super Sayan di Pezzenti con il Papillon, che non è solo un modo di dire o un personaggio cucitomi addosso per favorire like, al contrario la maggior parte delle volte che mi chiedono “Come si chiama il tuo blog?” lo bisbiglio quasi vergognandomene.

Forse avrei dovuto chiamarlo “Sfigati con il cravattino” come mio padre è convinto che si intitoli. Pezzenti con il papillonè più uno stato mentale che economico, si tratta di stile più che personaggio, ci si nasce non si diventa.

Perché ci sono alcuni comportamenti che evidenziano questa patologia cronica:

-         Non aggiornare l’estratto conto, perché parlare di soldi è volgare ma nella realtà c’è poco da aggiornare.

-         Preferire i vestiti al cibo.

-         Vivere nel passato, perché i pezzenti sono i decaduti del nuovo millennio. Coloro che provengono da generazioni di buona famiglia in cui il personale di servizio indossava sempre la divisa, la Nonna le perle e la bisnonna diamanti grossi come mele. Famiglie con una storia da raccontare, in cui c’era grazia, ottima educazione, i “buongiorno” sempre sorridenti e i “buonasera” precisi all’ora del tè nel salotto buono. Non esistevano tute da ginnastica ma mocassini college, i bermuda in velluto rigorosamente intonati al papillon e le camicie a fiorellini fino alla pubertà.

Più che nostalgia è rispetto per il passato, che sia decaduto o ancora in fiore.

-         Impazzire per tutto ciò che i Non-Pezzenti-con-il-Papillonlancerebbero nel fuoco: dalle tazzine dipinte a mano con lo scorcio di castelli inglesi del 1700 agli argenti cesellati, dalle architetture Liberty alle velette.

-         Osservare l’arte contemporanea, struggersi nel dolore più profondo pur di capirla, farla propria, rifletterci per giorni, mesi e anni, fino ad arrivare alla commiserevole conclusione che ti fa cagare e che preferisci di gran lunga un bellissimo Hayez o un Boldini.

-          Sognare con il grande Cinema degli anni ’50 e fregarsene a mani piene dei film cult del XXI secolo in cui si scopre Marte o la Terra viene minacciata da un meteorite infuocato. Nulla può battere l’immagine di Rossella O’Hara o Holly Golitghly sotto un diluvio che urla “GATTOOOOO, GATTOOOOO”.

-         Impazzire, stare male fisicamente, perdere il senso logico di fronte a una bancarella di un mercatino vintage, riuscendo a trovare una quantità informe di cose apparentemente inutili, scarti di case altrui, che diventano essenziali per te e per la tua casa.

-         Più che Lady Gaga, la Marchesa Luisa Casati.

-         Più che “50 sfumature di grigio”, “La signora delle Camelie”.

-         Vestire con disinvoltura abiti dismessi da cugini, prozii, nonni, bisnonni, nipoti e figli.

-         Portare una Chanel come fosse un sacchetto e un sacchetto come fosse una Chanel (cit. Nonna di Sarinski).

-         Non ostentare mai e poi mai un abito, una borsa, o una cospicua eredità.

-         Meglio ereditare stile e grazia piuttosto che i soldi, con quelli non c’è eleganza che si possa comprare.

-         Avere come fashion icon la Nonna e non l’ultima it-girl di Instagram.

-         Autoironia, così quella volta che ti ritrovi scalzo per strada perché le scarpe comprate a 1 euro da una zingara a un mercatino si sono aperte come una banana, fai Snapchat e non piangi in un angolo minacciando il suicidio.

Proud to be Pezzenti con il Papillon, oggi come domani.

NON SI RICEVE PIU' COME UNA VOLTA

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Proprio così, sì.
Il fulcro del problema è proprio questo: non si riceve più come una volta. Dove per ricevere non si intende “Dai vieni a casa che ordiniamo la pizza dall’egiziano bravissimo sotto casa”, ma quella sottile e raffinata arte dell’invitare per un tè, per un cocktail, per una cena gustosissima, facendo sfoggio di quanto più bello abbiamo in casa.
Come diceva Irene Brin nel suo libro, “Le visite” sono un momento antico e un lontano sapore nostalgico ci pervade quando capiamo che tempi come quelli sembrano ormai demoliti.

La coccola all’ospite, il servizio di posate ereditate della Nonna che lucidiamo quando siamo isterici ma che non mostriamo a nessuno per paura che spariscano coltelli e forchettine da dolce nelle tasche di amici velociraptor e quel sedersi in punta di culo perché affossarsi sul divano a gambe all’aria è quanto di meno chic si possa pensare.
Gli ospiti non arrivano mai in anticipo, così come una buona padrona di casa non si fa trovare sull’uscio della porta o in cucina ai fornelli. Il personale di servizio, quando c’è, apre la porta, prende i cappotti ed eventuali vivande in dono per sistemare il tutto e servirle al momento giusto. 


E quando non c’è il personale di servizio? Si finge di aver concesso loro una serata libera e si fa aprire a un’amica che aiuta nella preparazione “Non sai che disagio senza colf, devo fare tutto da sola”, perché giocare alle ricche è un atteggiamento che si coltiva fin dai tempi in cui Barbie sperperava denaro in macchine vestite e ville con l’ascensore.
“Accomodatevi” fa strada la colf “La signora arriva in un attimo”.
Nonostante sia pronta, imbellettata e tutta profumata, la vera padrona di casa aspetta quei cinque minuti di suspance, una manciata di minuti in cui gli ospiti potranno avere comportamenti maleducati senza essere osservati:
       
       1)      Passare il dito sui mobili per controllare la polvere
       2)     Avvicinare la fronte ai quadri appesi per identificare firme e stime dei loro autori
       3)     Fare un commento generale sul mobilio con smorfia di gradimento


Dopodichè la comparsa scenica della padrona di casa farà tacere la lingua di tutti e seguiranno “Oh ma che piacere” “Che visione Isabella Giuditta Vittoria Maria, la tua casa è un incanto”, perché aggettivi stucchevoli sono un idillio per le orecchie in queste mondane ma casalinghe occasioni.
Per i curiosi un giro accompagnato della casa è un modo carino di far vedere ricchi arredi, ereditati o regalati, o comprati compulsivamente qua e là. Non importa se alle pareti c’è un Mirò o una stampa Ikea, se la collezione di teiere ottocentesche è originale o la copia bruttina in offerta su Dalani.it, essere fieri di quello che si ha è un buon inizio.

Come dico sempre, più che la sostanza, lo stile.
Un caffè, qualche biscottino, il tè fumante nella teiera più carina che abbiamo, basta poco per mostrare il lato accogliente che abbiamo da offrire.


Che sia un attico vista parco di Porta Venezia o un monolocale a Lambrate. 

AUDREY A ROMA

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Più che la parola icona a volte dovremmo usare “buon esempio”, perché troppe volte le fashion icon, le icon girls piuttosto che le dive di passaggio vengono assunte come incontrastate regine del glamour senza che ne sia spiegato davvero il motivo.
Un film, una foto, un’apparizione televisiva possono fermare il tempo e dare un’immagine eterna a una persona senza però scoprire chi era davvero, cosa pensava e cosa avrebbe detto a riguardo.

È il caso di Audrey, un’attrice che più di ogni altra è stata osannata ed elevata all’Olimpo della icone di bellezza e raffinatezza, giustamente eh, ma in modo a mio avviso errato.
Lo scrive proprio Luca Dotti, il figlio, che vedendo una gigantografia di sua madre con il cappello a tesa larga, gli occhialoni e il celebre tubino di Givenchy nei panni di Holly Golitghly, osannata dai nipoti che non ha mai potuto conoscere (Audrey muore a 63 anni nel 1992), decide di scrivere un bellissimo libro, “Audrey mia madre” e pubblicare foto inedite che non rappresentano affatto una diva del cinema, ma una donna bellissima, una madre gioiosa, innamorata della vita.

Perché Audrey non è Holly, non è Sabrina, non è quell’incantevole immagine stampata su borse di plastica e tazze da discount con frasi come “La moda passa lo stile resta” (che non è sua ma di Coco Chanel), ma è quella signora elegantissima che adorava andare al mercato e scegliere gli ingredienti per le ricette che il figlio Luca raccoglie nel suo libro, con aneddoti divertenti che solo l’affetto di un figlio possono far trovare le giuste parole.
Mi sono affezionato a quelle fotografie, in bianco e nero e a colori, in particolare a quelle che la ritraggono serena, felice e attorniata dall’amore della famiglia, in una città che l’ha vista nella sua più splendida semplicità: Roma.


È qui che cresce il secondo figlio Luca, nella città che l’aveva ospitata per il grande successo del film “Vacanze Romane” che ha fermato l’immagine elegante e sofisticata di Audrey che era metà olandese metà inglese, e di discendenza aristocratica.
A Roma Audrey si trasferisce, dal centro storico al più appartato quartiere dei Parioli, dove potrà sentirsi a casa, protetta da sguardi indiscreti e boom di paparazzi.
La parte più bella del libro, a mio parere, è proprio questa perché racconta luoghi che fanno parte di me e della mia bellissima infanzia e sapere di aver calpestato per 8 anni gli stessi passi di Audrey, beh, un po’ mi fa sentire speciale.


E poi c’è quel motivo sentimentale, Audrey negli ultimi anni della sua vita mi ricorda tantissimo la Nonna Giuliana, che viveva proprio lì, a due passi da lei e chi lo sa quante volte si sono incontrate per caso, frequentando le stesse vie.
Audrey viveva in Via San Valentino, la via in cui sono nato io e dove il bisnonno Carlo ha fatto costruire una palazzina nel 1936 che ancora domina la salita, il suo fiorista preferito era proprio quello davanti a casa nostra, ribattezzato “Il Bulgari dei fiori” visto che per due margherite devi chiedere un finanziamento decennale.



Il figlio Luca ricorda inoltre le passeggiate a Villa Balestra dove andavo quasi tutti i giorni con mamma e Nonna, e i suoi giri per il quartiere senza che nessuno le dicesse “MA LEI E’ AUDREY HEPBURN”, perché tutti sapevano, ma tutti la facevano sentire una di loro, protetta in un ambiente elegante, sofisticato e “normale”.
Molto divertente il racconto della sua cuoca sarda, Giovanna, la tuttofare di casa, che animava la cucina e adorava Audrey con cui si era creato un feeling unico, indissolubile. Mi ha ricordato i racconti di Nonna sulla sua cuoca storica, Michela, anche lei sarda. Divennero amiche, confidenti e per tutta la vita si sono sentite telefonicamente una volta la settimana.

Le domestiche sarde sono le filippine degli anni ’70-’80.
Si aggirava indisturbata e da quel penultimo piano in Via San Valentino si sono riuniti amici di Audrey tra cui aristocratiche romane che occupavano i rotocalchi di moda e attori di un’Hollywood lontana innamorati di questa città affacciata sul Tevere. Ma prima di tutto, erano amici.

Una cugina di mio Nonno, Anna, fuggita in Argentina per non soccombere alle leggi razziali, rientrò in Italia dopo la guerra e spesso faceva visita a Magazzino Bises che si trovava a Palazzo Altieri in via del Gesù, e proprio qui ha incontrato qualche volta Audrey Hepburn.
“Bella, elegante e molto distinta, con un magnifico sorriso”, la ricorda così, un po’ lontana da quell’aurea altera che tutti le associano. Ed è bello scoprire un nuovo lato, più umano, dolce e affettuoso di questa attrice che sì ha calcato le scene più belle del cinema ma si è anche occupata dei più deboli e fino alla fine delle sue forze ha cercato di migliorare il mondo diventando ambasciatrice dell’Unicef.
Questa era Audrey.





CHE BELLO CHE FAI L'ISTRUTTORE DI NUOTO

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Stagisti si nasce, si diventa e ci si mummifica. Uscire dal tunnel di stage registrati a caso, in qualità di apprendisti, schiavi liberi o domestiche referenziate è davvero difficile. Così ci si inventa la qualunque per risparmiare o semplicemente rimboccarsi le maniche perché i genitori non sono bancomat a chiamata e l’indipendenza economica è uno dei momenti più belli che si possano vivere.
Vuoi mettere la felicità di andare da Prada con la carta del Papi e poi finire da H&M kids con la tua postepay in fase di autodistruzione? UN SOGNO.
Lavoro da quando ho 19 anni in piscina e ormai la puzza di cloro, le infradito e quell’umidità da equatore sono parte di me, e alla fine stanco o no, mi congratulo con me stesso perché le giornate sono lunghe, le fermate della metro infinite e le gambe sempre rotte, ma almeno me la cavo da solo.
Ufficio+ 50 minuti di metropolitana + 2 ore di corsi di nuoto + 2 ore di fitness + 45 minuti per tornare a casa e poi la pace sotto al piumone guardando Chi l’ha Visto?
In alternativa Ufficio + 30 minuti di mezzi + merenda al volo + 7,5 chilometri in bicicletta + 2 ore di fitness + 7,5 chilometri in bicicletta, sempre per finire a vedere Chi l’ha Visto? Sotto al piumone.
Tanti mi dicono “Ma che bello che lavori in piscina” oppure “Che sexy istruttore di nuoto” perché forse hanno delle aspettative diverse dalla realtà, che non voglio distruggere, ma solo portare a regime.

L’istruttore di nuoto non sempre è quello più fisicamente predisposto alla bonaggine, infatti dopo 5 ore passate a urlare, a dire “VIAAAA”, “ALZA LE GAMBEEEEE”, “MATTEO, PIETRO, GIUSEPPE E CAMILLAAAAAA” magari non ha voglia di nuotare e rientrare nuovamente nell’acqua all’impatto gelida. Quindi forse è l’ultimo dei suoi pensieri riattivare il bicipite o irrigidire il gluteo.
Noi istruttori accogliamo sorridenti i bambini, facciamo le mamme, le baby sitter, i padri affettuosi, le badanti e anche gli psicologi. “No Gaia, non piangere che oggi non facciamo i tuffi promesso”, poi appena la famiglia si dilegua un po’ nazi “ALLORA UN TUFFO E POI FACCIAMO IL MISSILE” perché il primo insegnamento è non traumatizzare il bambino.
Abbiamo timpani perforati, costumi sempre bagnati e un pallore giallo dovuto alla combo acqua azzurra+luce al neon che ci fa sembrare in procinto di morire di epatite.
“Lorenzo stai bene?”
“Ma certo, non mi trovi in formissima?” con sorrisone, sudato fradicio dopo due ore di gambe/addominali/salti perché le sciure dell’acqua fitness non si ritrovino molli come capesante la prossima estate a Jesolo.  Perché delle responsabilità in vasca, tra cui quella di combattere la loro cellulite come fosse mia.


A una certa ora del giorno diventiamo idrorepellenti, ci siamo appena asciugati, abbiamo una temperatura corporea che non si aggira più intorno ai 34 gradi, abbiamo ripetuto 10 volte “Facciamo una vasca a stile e il ritorno a dorso” e ci siamo sentiti chiedere “Maestro, ma al ritorno rana?” poi incitiamo a battere più forti le gambe ma appena una goccia d’acqua sfiora il tuo malleolo senti un brivido lungo la spina dorsale. Quello è un momento in cui rimpiangi perfino di non lavorare come impiegato delle poste a Cinisello Balsamo.
Siamo i primi ad ammalarci e gli ultimi a essere riconosciuti come importante step nella crescita di un bambino che si ricorderà di te come quello che ha tentato di affogarlo e non come un eroe che l’ha fatto smettere di avere il terrore dell’acqua.

A colpo d’occhio sappiamo identificare subito il colore delle ciabatte, delle cuffie, degli accappatoi di ognuno di loro, li aiutiamo a fare il nodo e li diamo la mano per arrivare più velocemente nello spogliatoio così non prendono freddo. Li salutiamo con la mano. Succede anche che una bambina ti sorride e ti dice “L’altra volta non c’eri, mi sei mancato” e ti porta un disegno in cui tu e lei siete felici in un mondo tutto color pastello e c’è anche un arcobaleno.

In quel momento dimentichi ogni fatica e soprattutto non fai caso al fatto che nel disegno non ti ha fatto manco i capelli ma indossi la cuffia. 

QUANDO VIENE DICEMBRE

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Per tutto il mese così.
Per anni ho soffocato la magia del Natale e l’attesa dell’arrivo di Dicembre perché un po’ mi intristiva, perché erano lontane le cene della Vigilia a casa di Nonna Giuliana con Babbo Natale che suonava alla porta mentre noi nipoti distratti guardavamo un cartone nel salottino.
Quando si è grandi cambiano le aspettative e tra il brodo, i cappelletti e un cappone ripieno che durerà fino alla Befana, riscaldato più volte, si rischia di perdere il piacere dell’atmosfera natalizia. Il significato cattolico del Natale ha quel sapore antico e tradizionale, ok, ma chi come me non crede a niente se non ad Alberto Angela, festeggia questo momento come “Sto in famiglia”, perché a Natale si sta in famiglia.
Famiglia è quello che noi riteniamo tale, quel nucleo di protezione che può essere un genitore, un cane, un’amica, un amico, un compagno, un mascalzone con cui sto accidentalmente uscendo, una prozia affezionatissima, una compagna di banco del liceo, un buon libro o il mio cd preferito di Mariah Carey, quello che si vuole.

Nessuno potrà dirti cosa devi essere e a quali convenzioni sociali devi appartenere e se lo fanno, spallucce e via a canticchiare “All I want for Christmas is CAZZOCENE” davanti al caminetto.
Negli ultimi anni ho riscoperto invece quanto sia bello entusiasmarsi per un albero ben illuminato a casa tua o nella tua piazza preferita, quanto sia divertente camminare per la strada e sentire le musichette di Natale, che ogni anno sono identiche ma ogni anno ci fanno voglia di cantarle a squarciagola con un maglione in lana carico di renne e slitte.
Niente regali, o meglio, vanno bene se sono cose piccole, studiate, ricercate e buffe, che quando scarti il fiocco ti fanno pensare “Solo tu potevi regalarmi una cosa così” perché cucita su di te, con un biglietto (obbligatorio anche se si regalano soldi, tessere di Zara o un pugno sul muso) che è sempre la parte più bella.
NB: per il bigliettino usate una carta da lettere “speciale”, così chi lo leggerà sa che quello non è il primo foglio trovato nel cassetto ma la famosa carta da lettere per le persone speciali (cit.)


Quello che mi piace del Natale è l’incondizionata voglia di essere felici, anche con poco, con mille buoni propositi che poi scadranno entro il 10 gennaio ma sentirsi comunque circondati da un’aria allegra nonostante i tempi, le sofferenze, le minacce di crimini efferati e le terribili notizie che ci arrivano dal mondo, ahimè quello reale.
Quello che non voglio invece è essere condizionato dal clima di paura e sospetto, non voglio aver paura di uscire di casa, di mangiare le castagne in Galleria perché sui social scrivono che faranno saltare in aria tutti i castagnari della città, o frequentare i posti che amo per il timore di qualcosa che boh, non possiamo controllare e che mi auguro non succederà.

Preferisco indossare un maglione di Natale, un bel cappotto e con gli occhi all’insù stupirmi per ogni luminaria, per ogni carillon, per ogni alberello addobbato, finendo poi a casa avvolto nella mia coperta di pelliccia a guardare “Anastasia” urlando a squarciagola “QUANDO VIENE DICEEEEMBRE” con lo stesso entusiasmo di quel lontano 1997.

Perché a Natale si è tutti un po’ più bambini. 
Con la coperta di pelliccia. 

GESU' VESTE DIOR

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Ogni anno la stessa scena e ogni anno lo stesso pensiero, perché dai basta con questi piccoli presepini umili e pieni di pagliericci per i suoi abitanti.
Dov’è l’oro sontuoso? L'ostentazione? Il benessere sfacciato un po' Dubai?
Ecco allora che in uno dei miei viaggi mentali mi sono immaginato una sacra famiglia alternativa, con qualche piccola (?) accortezza non ho avuto la presunzione di indagare la Bibbia ma l’ho proprio riscritta a modo mio.

Perché un uomo importante come Gesù, figlio di un boss come Dio, dovrebbe girare a piedi nudi, con una sorta di tunica zozza e logora? Non è giusto, rendiamogli omaggio. Gesù deve vestire un sartoriale Dior, un abito ben tagliato con bow tie e classiche stringate lucide in pelle nera, il capello un po’ folto, un po’ da selvaggio-into-the-wild però con l’addominale scolpito e un po’ di pelo incolto che piace alle fedeli. Poi la corona di spine può diventare una creazione su misura di Philip Tracy, con qualche fiorellino a rendere tutto un po’ più lezioso.
La Madonna è il fulcro, che sia una Vergine non significa che sia una povera derelitta, togliamole il velo da timorata di Dio e lasciamo che mostri la sua lunga chioma rinvigorita da colpi di luce, un taglio sfilacciato e qualche cappellino, versione veletta o tesa larga per quando l’estate si trasferisce al mare in Costa Azzurra.
Di gusto classico, non esce senza la Kelly di Hermes e ama i completi giacca e gonna al ginocchio di Yves Saint Laurent, negli anni ’90 era la numero uno quando si parlava di spalline imbottite, nessuna era più tronco-di-piramide di lei.  

La Maddalena invece è più vamp, capello ossigenato (un po' di ricresciuta si nota eh) lasciato ai boccoli selvaggi, ama il rouge potente o il fucsia, ogni tanto esagera con il leopardo e anche con la nail art. Ai piedi solo Louboutin altissime, quando fa finta di strapparsi i capelli ai piedi della Croce le toglie e le ripone.
Giuda, che ricordo essere il cattivo della soap, è un po’ il Gabriel Garko della situazione, bello esteriormente, immorale interiormente, un po’ faccia da pirla ma con la schiena muscolosa, ecco come mai nelle scene de l’Ultima Cena è sempre di spalle e isolato dal resto degli apostoli.
Lui indossa solo intimo Calvin Klein, gli da' un’aria da boss malavitoso, da poco si è tatuato una lacrima sotto l'occhio sinistro, sicuramente un messaggio profetico. San Giuseppe predilige Armani ed è un industriale molto rinomato, pare che abbia una villa a Tropea incantevole e che sia imbattibile sulle piste da sci a Cortina.
Quindi, per l’allestimento del vostro annuale presepe consiglio uno chalet dall’aria calda e accogliente a Gstaad in cui la Madonna, avvolta in una splendida pelliccia di volpe argentata, legge Vogue davanti al caminetto, Giuseppe guarda le lezioni di golf sull’iPad e il bambinello viene cullato dall’istitutrice tedesca, Frau Gherda.

Basta con il bue e l’asinello che scaldano il piccolo neonato, c’è un impianto di riscaldamento ultima generazione nello chalet e sul tetto addirittura i pannelli solari, al loro posto mettiamoci due pettinatissimi levrieri afghani che in posa Sfinge sembrano due adorabili mobili di luxury design.
I Re Magi li facciamo alti, belli e muscolosi, portano omaggi pesanti così il bicipite è sempre gonfio, il pastore diventa lo spazzaneve personale della sacra famiglia e quello che di solito tira su l’acqua dal pozzo ora è l’addetto alla piscina che d'inverno si trasforma in una splendida pista di pattinaggio sul ghiaccio.
Quanto lusso sfrenato a Betlemmestaad quest’anno.
Finalmente.

COME SCEGLIERE UN PAIO DI OCCHIALI AH BOH NON CHIEDETELO A ME

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L’ultima volta che ho scelto un occhiale da sole l’avevo appositamente raccontato QUI sul blog perché fu un’esperienza di caos, buon gusto e dubbi amletici. All’epoca avevo scelto i Persol per due motivi: il primo è che è un occhiale non convenzionale e che non tutti scelgono di indossare, il secondo perché è un marchio italiano e visto che gli italiani fanno tutto meglio io non sconfino all’estero quando posso.
Così quando mi hanno chiesto di vedere la nuova collezione di occhiali del negozio “Vision Ottica” in Piazza De Angeli a Milano ero felicissimo ma allo stesso tempo nervosissimo.

Non sai mai quanto quegli specchi e quelle luci possano farti sentire favoloso o bello come uno sturalavandini e quasi tremavo come una foglia all’idea di rimettere in discussione quale modello di occhiali mi stanno meglio.
Terrore all’idea di sentire la frase “HAI IL VISO ROTONDO” perché sembro una palla o “NON HAI IL VISO MAGRO”  con successiva testata contro la vetrina.
In negozio una gentilissima Michela mi accoglie e mi mette subito a mio agio “Che onore averti qui” e mi sono sentito un po’ la principessa Anna che inaugura ospizi e visita gli orfanotrofi.

La collezione Res/Rei 

“Secondo me tu sei perfetto per questi occhiali di un nuovo marchio italiano PAZZESCO” e mi ha mostrato la collezione RES/REI EYEWEAR aprendomi tutte e dico tutte le scatole con i vari modelli. Ecco, io già in crisi fin da subito e non sapevo nemmeno da dove cominciare, è stato come quando con un sacchetto di caramelle da piccolo non ti davano un limite e riuscivi a ingozzarti in pochi minuti.
Forse in pochi minuti non ho capito neanche quale modello scartare del tutto visto che mi piacevano da quelli tartarugati a quelli metà pitonati metà lisci, una confusione in testa nemmeno da piccolo quando facendo la lista a Babbo Natale chiedevo il Cavallo bianco di Barbie ma anche l’elicottero delle Micro Machines.

Mi sono lasciato trasportare dai complimenti e dalla storia di questo marchio che fa del Made in Italy il suo dettaglio di qualità e ho uno scelto uno dei modelli di punta che spero mi stia bene altrimenti chissene frega me li metto e tutti dovranno dire “WOW SEI BELLISSIMO”. Vale la pena comprare un paio di RES/REI solo per la brochure a disegno acquarellato che li accompagna.



Gli altri modelli di Persol, Ray Ban o i classici Dior o mi stavano male oppure sono troppo mainstream, a mio avviso gli occhiali devono essere un dettaglio così particolare e personale che indossi solo tu.
Poi va beh, ho partecipato al concorso “Non perdere di vista” (ho anche guardato QUESTO video mettendomi quasi a piangere: nella speranza di vincere 30 anni di occhiali. 30 anni di montature tartarugate e da divo del cinema, io firmo con il sangue, ora, qui: http://visionottica.it/concorso/



QUANDO DRAMMA NON C'E'

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Per molto tempo ho vagato per questa città pensando che è più romantica di quanto sembri, che ci sono degli scorci, degli angoli e dei palazzi che meriterebbero uno sguardo addolcito e una mano nella mano. Perché lo scorrere delle stagioni e le bellezze di Milano creano un incredibile sfondo per metropolitane romanticherie.
Siamo tutti assorti e presi dalla velocità delle nostre giornate con corse furibonde per prendere il tram, pagare le bollette, addirittura cambiare la bacinella di quella famosa perdita della cucina, che spesso non ci accorgiamo della bellezza di quello che abbiamo intorno e sotto al naso.
Abituato a una vita a cento all’ora con pedalate forsennate tra Viale Zara e Porta Venezia ogni tanto il desiderio più grande non è vincere alla Lotteria ma riposare le stanche membra e in quei momenti capisci quanto sia bello il rallentamento delle cose.
Che sia comprare il giornale e leggerlo al sole nel nostro giardinetto preferito, che sia oziare sotto una coperta di pelliccia insieme a Lucrezia Borgia o godersi un pomeriggio al cinema, cosa che non facevi dai tempi delle medie.
Quando vivi tanto tempo a uno è difficile poi pensare di fare tutto questo a due, perché pensi che il tuo piccolo cuore egoista non potrà fare abbastanza spazio per un’altra persona che giustamente pretende attenzioni, sguardi non in fuga, e TEMPO.
E nel momento in cui dici a voce alta “Non sono fatto per le relazioni, starò bene da solo, ho tanti amici e un profilo Instagram da curare” ritrovandoti poi a parlare con la tua pianta di gelsomino, improvvisamente conosci qualcuno per cui non solo trovi lo spazio nel tuo cuore egoista, ma addirittura nell’armadio.
 
La vita ti frega sempre e ti mette nella condizione di dover rivedere i piani più e più volte, e le cose inaspettate  si sa sono quelle che più ti renderanno felice anche se ti fanno sprecare chilometri di cancelleria.
Dopo la prima fase di pura diffidenza in cui pensi “E’ uguale a tutti gli altri” e immagini già quale meravigliosa scusa troverà per darti buca al terzo appuntamento, piano piano svaniscono tutte le conoscenze che hai sull’argomento perché incredibile ma vero, non è come tutti gli altri.
Non c’è una regola con cui si può stabilire se dietro l’angolo c’è una fregatura o un bidone, altrimenti ci sarebbero app e studi scientifici di qualche università americana, ma sicuramente c’è un fattore che non mente e che è la base di un buon incontro: IL TEMPO.
Se ti dedica un po’ del suo tempo e si rattrista quando questo tempo passa troppo velocemente, allora vuol dire che prova per te un piccolo sentimento in crescita, in espansione rapida, che magari finisce dopo 24 ore o che magari ti porta all’altare o davanti al Sindaco in comune.
Dall’altro canto un cuore indurito potrebbe aver paura di non riuscire più a provare un battito per qualcuno che non sia il gatto a causa delle sconfitte e dei dolorosi trascorsi che l’hanno visto lanciare sedie, scendere le scale di casa alle sei del mattino e addirittura cambiare operatore telefonico, ma non è così, perché l’animo umano è così fesso che alla seconda moina e al quarto “Mi piaci davvero” già pensa ai papabili nomi delle vostre quattro figlie femmine: Maria Vittoria, Laudomia, Alberica e Gilda, per l’appunto.

È delicato il passaggio dal “Non voglio più saperne” al “Stai via 4 giorni e io come faccio” ed è un turbinio di contraddizioni e colpi di scena.
Piano piano quei fantasmi del passato che prima turbavano il tuo sonno svaniscono, un po’ come quando alla guida in autostrada tra curve e tunnel sei teso e nervoso, ma poi la strada si fa sempre più pianeggiante e tu rilassato procedi dritto e ti godi una bella rustichella all’autogrill.
 
Ecco la sensazione che ho io, di tranquillità, di serenità.
Non ci sono lacrime notturne, non ci sono controlli ossessivi di Whatsapp o lanci di piatti ma solo pedalate in giro per Milano, abbracci a qualsiasi ora del giorno e un dolce magone quando ti accompagna a casa e già ti manca nonostante vi rivedete il giorno dopo.
E ti accorgi che è importante per te perché hai paura di perdere tutto questo ma soprattutto perché  immagini la tua disperazione al suo funerale.

CRONACA DI UN FURTO

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Non mi era mai successo di essere derubato così stupidamente e in un posto che io avevo definito meraviglioso 5 minuti prima su Snapchat.
La domenica mattina sono di casa a Piazzale Cuoco, perché l’idea di ravanare tra mucchi di vestiti usati alla ricerca dell’ultima chicca di stagione per quello è già uno strabordante guardaroba mi riempie il cuore di gioia.

Questa volta l’obbiettivo era un montone perché biscottino ne sentiva il bisogno e il giorno prima quando ha detto “Ah dai, ho visto un montone a 90 euro in quel negozio, non è molto” io ho subito urlato “MA SEI MATTO, A PIAZZALE CUOCO CON 90 EURO TI PORTI A CASA ANCHE LA CERATA DELLA BANCARELLA”.
E infatti ci siamo addentrati tra mille bancarelle, mille cumuli di roba, trovando il famoso montone a 15 euro. Il ragazzo arabo della bancarella mi aveva proposto a 30 euro un Loden che mi stava a pennello ma che era tutto sgualcito, gli ho detto “Tu sei matto, è tutto rotto, facciamo 10” e lui ha ribattuto con 15 e ho detto “Ci penso”.

Nel pensarci siamo finiti nella parte più tremenda del mercatino, dove si vendono pezzi di qualsiasi cosa, motoseghe, gomme per auto, cose rubate e Kinder Bueno spacciati come droga da zingare con la gonna di velluto e le ciabatte ai piedi.
Aveva piovuto la notte ed era tutto un misto fango e sassi che addirittura avevano messo delle passerelle di legno per fare gli equilibristi. Ero un po’ restio, non volevo addentrarmi ma il fascino di quello che si può trovare lì dentro e l’assoluta tranquillità con cui sono sempre andato al mercato di Piazzale Cuoco mi hanno fatto avanzare.
A una bancarella mi fermo a provare un montone che costava 3 euro ma che era enorme, nel frattempo il proprietario chiede a Luca “Scusa, puoi farmi il ripristino di questo cellulare? Sei capace?” perché probabilmente lo aveva appena acquistato da qualcuno che lo aveva appena rubato e c’erano ancora le tracce di numeri e foto del legittimo proprietario.
Subito ho pensato a quel poverino a cui era stato rubato e al dispiacere, alla rabbia, di un simile accaduto.

Un minuto dopo, a due passi da quella bancarella, vengo acciecato dalla bellezza di un Loden austriaco nuovo che provandolo si è rivelato il Loden della vita. Guardo il ragazzo che mi dice “Sono 25” e io “Dai facciamo 10”, “Ok dai”, un affarone.
Mi tolgo il Loden, glielo porgo “Ce l’hai un sacchetto?”, Luca intanto mi passa il cappotto dove nella tasca interna c’era il mio telefono, me lo rimetto e nel momento in cui il cappotto girava intorno alle mie spalle per infilare la manica, sento che qualcuno mi si appoggia come se per sbaglio mi fosse venuto addosso.
1 secondo dopo sento che il telefono non era più nella tasca, mi avevano derubato.

Comincio a inveire, a cercare tra la folla quella mano lesta ma era impossibile, nessuno davanti a me si era reso conto e poco dopo il telefono è stato spento e probabilmente rivenduto al migliore offerente.
Il ragazzo che mi stava vendendo il cappotto ha urlato “Che bastardi”, e le signore musulmane con il velo sulla testa che mi hanno visto così arrabbiato erano dispiaciutissime dell’accaduto, perché sanno cosa si dice su quel mercatino delle pulci e si sono sentite male per me.

Con lo sguardo perso nel nulla, lo sguardo di chi scopre per la prima volta che cosa sia un furto lesto, non sapevo davvero cosa fare. D’istinto però ho tirato fuori i 10 euro, perché almeno questa brutta giornata non finisse senza aver portato a casa quel Loden bellissimo che mi stava una favola.
Mi sono sentito stupido, mesi e anni a millantare “A Piazzale Cuoco non ti succede nulla, figurati” e poi tradito dalle mie stesse parole. E’ un dispiacere non tanto per il mio meraviglioso Zenfone 2 con cui ho catturato bellissimi momenti in questo anno, ma per la perdita dell’ingenuità, perché ora in un posto vagamente affollato e in qualsiasi mercatino, avrò sempre paura che qualche uomo vile allunghi la mano nelle mie tasche.

Ma non finirò di urlare al mondo quanto io sia orgoglioso di indossare jeans e cappotti comprati a due euro e non finirò di andare a Piazzale Cuoco la domenica mattina.

Senza il telefono e con i soldi negli slip, però. 
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