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Channel: Pezzenti con il Papillon
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DOVEVO NASCERE ZARINA

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La famiglia imperiale dei Romanov, uccisa nel 1918 dai bolscevichi.
Nella mia totale fissazione per le casate reali, gli intrighi di corte e le magnificenti toilettes del passato, non mi dimentico mai di leggere le descrizioni storiche di quello che più rendeva onore all’eleganza e all’opulenze delle famiglie regnanti: la collezione di gioielli.
E se in Italia nel primo Novecento Donna Franca Florio sfidava la Regina Margherita a chi aveva il filo di perle più lungo e le corna più alte, si dice infatti che ogni giro di perle corrispondesse a un’avventura extraconiugale del marito, oltre confine non vi era dubbio, vincevano i Romanov.

Una tiara di perle e diamanti.

Se nel presente i russi hanno il grano sonante e lo ostentano così apertamente che è abbastanza lampante, vedi il Ferrari per lui e la borsa griffata di pitone rosa delle Amazzoni da 45 mila euro per lei, è anche perché la loro cultura della ricchezza è sempre stata spettacolare, fin dai tempi della famiglia imperiale.
Sto leggendo un meraviglioso libro di Stefano Papi, esperto studioso di gioielli per le case d’aste più famose del mondo, Sotheby’s e Christie’s. che si intitola proprio “Jewels of Romanovs, family & court”, dove sono raccolti i più celebri gioielli della casa imperiale, forgiati e creati per la testa degli Zar e delle Zarine che hanno fatto la storia di questo paese.

Una tabacchiera appartenuta alla zarina Maria Feodorovna.

I Romanov prima di cadere nelle mani dei bolscevichi diventando così il simbolo del crimine anti-monarchico, furono la famiglia imperiale russa dai grandi fasti che regnò per 400 anni, trasformando la corte di San Pietroburgo in una fucina di ricchezza, sfarzo ed eleganza.
Dalla Grande Caterina, la sovrana illuminata, che cercò di ingentilire il popolo russo e di radunare attorno a sé scienziati e letterati da tutta Europa, fino a Maria Feodorovna, moglie di Alessandro II e madre di Nicola II l’ultimo sfortunato Zar, che con la sua passione per i gioielli fu la rovina delle casse dell’impero e la pupilla del celebre gioiellerie Peter Carl Fabergé, divenuto nel 1885 l’orafo ufficiale di casa Romanov con le sue leggendarie uova.
Nella collezione imperiale ci sono diamanti e zaffiri blu da far interrompere la salivazione a chi come me è attratto inesorabilmente dal luccichio.
Nel 1762 la Grande Caterina si fa incoronare con un’enorme corona tempestata di brillanti e diamanti sormontata da un rubino dell’India da 400 carati. Una pietra che in confronto il Cuore dell’Oceano sembra il nocciolo di un chicco d’uva.


ZAFFIRI ENORMI.

Più sobria invece la sopra citata Maria Feodorovna che per l’incoronazione del figlio Nicola II indossò una corona realizzata dal gioielliere di corte Louis David Duval, qualcosa come 2,052 diamanti, 37 mila rubini e qualche spicciolo di zaffiro blu delle Indie e del Brasile. Poverina.
Non tutte le signore di casa Romanov però apprezzavano la pesantezza e l’estrema opulenza di quei bagni di diamanti, come la Granduchessa Olga, sorella di Nicola II e figlia di Alessandro II che non tollerava le chilate di parures e quelle tiare da cerchio alla testa, al contrario preferiva qualche semplice perla.

Ma va beh, in ogni casa imperiale che si rispetti c’è la scema ricca che vuole fare la povera e si lamenta di appartenere a una famiglia di livello.
Fu proprio lei a divorziare dando grande scandalo a corte per vivere sotto lo stesso tetto con l’uomo che amava anche se apparteneva a un rango inferiore, ma leggendo la storia probabilmente fu anche fortunata e scampò alla ferocia bolscevica che uccise suo fratello e tutta la sua famiglia.


Una tiara imperiale con diamanti e zaffiri, Cartier. 

Il 16 luglio 1918 Nicola II, la zarina Alexandra e tutti i figli vennero radunati in una stanza del loro appartamento dove erano prigionieri per fare una foto, nella realtà appena si misero in posa i bolscevichi aprirono il fuoco e li fucilarono tutti.
I loro corpi vennero sotterrati nel bosco dopo aver tentato invano di polverizzarli completamente con l’acido solforico e a causa del mancato ritrovamento dei corpi della Granduchessa Anastasia e del piccolo Alexei, lo zarevich, nacque la leggenda che la piccola di casa Romanov fosse riuscita a salvarsi, ma non è così.

L’epiteto finale dello splendore dei Romanov è macabro quanto triste, i nobili russi e i membri superstiti della famiglia imperiale che riescono a sfuggire alla storia si nascondono dove possono, tra la Francia e la Danimarca, portando con loro quel che di russo rimane.
Alcuni gioielli vengono messi in salvo attraverso parentele di sangue, messi in sicurezza a Mosca e portati oltre confine cucendoli tra i vestiti e gli effetti personali, altri furono trovati tra gli abiti della Zarina Alexandra e sotterrati con lei dai bolscevichi.

Il ritrovamento dei gioielli di casa Romanov.

Negli anni ’20 alcuni vennero battuti alle aste presso Sotheby’s con illustri acquirenti come Queen Mary of Great Britain che acquistò nel 1929 una spilla di diamanti perle e un enorme zaffiro blu che fu della zarina Maria Feodorovna, morta l’anno prima.
Altri furono indossati dalla Regina Maria di Romania, altri dalla Principessa Marthe Bibesco, un’icona di stile e grazia effigiata anche da un magico Boldini.
Gran parte della collezione è custodita a Mosca ed è lì, a rammentarci i fasti di un tempo ormai passato in cui il bagliore di un diamante raccontava la storia di una famiglia imperiale che è entrata nella leggenda.





I BISES NELLA MEMORIA

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Il trisnonno Raimondo e a sinistra in piedi, il bisnonno Carlo.

Ogni anno nel giorno in cui ricordiamo cosa è successo agli ebrei, agli omosessuali, ai dissidenti politici, agli zingari e ai nemici del nazismo/fascismo, faccio lo stesso pensiero “Potrei non essere qui” e la tragedia che ha coinvolto con la morte 6 milioni di vite avrebbe potuto per sempre cambiare il destino della mia famiglia.
Potrebbero esserci più Bises tra quelle lapidi che ricordano i nomi degli italiani rastrellati e potrei non essere qui a preoccuparmi quale foto postare su Instagram o a lamentarmi della maleducazione dei condomini che mi incontrano nell’androne e non salutano.
I Bises sono stati più fortunati di altri, parenti e non, ed è ancora più giusto, oggi e non solo, ricordare quanto è accaduto, senza banalità e senza retorica alcuna.

Il bisnonno Carlo è nato e cresciuto a Roma al ghetto, suo padre Raimondo Rubens Bises era un elegante signorotto con una merceria e tessuti in via delle Botteghe Oscure ma ben presto quel piccolo negozietto divenne un impero grazie all’astuzia, al buon gusto e anche alle manie di grandezza proprio di Carlo che aveva un gran fiuto per gli affari.
Il bambino che non voleva andare a scuola per giocare alla fontana delle tartarughe divenne un imprenditore di successo aprendo un grande negozio a Via Del Gesù con il nome di BISES TESSUTI ed esponendo nel suo magazzino (ora lo chiameremmo show-room) al piano nobile di Palazzo Altieri, di proprietà di un principe romano erede dell’omonima famiglia papalina, tessuti preziosi per arredo, abbigliamento donna e uomo di alto livello.

Seduti primo piano la trisnonno Eugenia Sed e il trisnonno Raimondo Rubens Bises, morirono nel 1941-1942 al Grand Hotel, dove si erano trasferiti perché con le leggi razziali gli ebrei non potevano avere personale di servizio.

Sempre a Roma Carlo incontra una ragazza bellissima, Gilda De Benedetti, originaria di Asti, si innamora e quando esprime i suoi sentimenti le dice “Vorrei sposarti ma c’è un piccolo problema, sono ebreo” perché ovviamente la famiglia pretendeva che sposasse una ragazza ebrea e lei ridendo rispose felice “Anche io”. Può darsi che sia la versione romanzata che si tramanda di generazione in generazione ma mi piace pensarli così, innamorati e felici di appartenere alla stessa “razza”, come poi sarebbe stata crudelmente identificata.
Carlo Alberto Bises sposa Gilda De Benedetti nel 1919 alla sinagoga di Roma e poco dopo una sorella di Carlo sposerà un fratello di Gilda, un classico esempio di come le famiglie all’epoca tendevano a stringere delle vere e proprie corporazioni.
Da quest’unione nasceranno 4 figli maschi: due gemelli Ulrico e Luciano, mio nonno, Ruggero e Raimondo.
Gli affari diventeranno sempre più proficui così il bisnonno e la bisnonna Gilda decidono di far costruire la palazzina Bises in cui radunare tutta la famiglia ai Parioli sulla salita di Via San Valentino e nel 1936 inaugurano gli splendidi appartamenti disegnati dall’architetto Andrea Busiri Vici.
Con l’emanazione delle leggi razziali il colpo si fa sentire e iniziano le vere e proprie persecuzioni, il trisnonno Raimondo, ormai anziano, si trasferisce con la moglie al Grand Hotel perché gli ebrei non potevano avere personale di servizio. Entrambi muoiono (nel 1941, 1942) prima di vedere con i loro occhi antichi dove può arrivare la crudeltà umana nella città che hanno tanto amato.

Lui non so perché me lo immagino come quel vecchio aristocratico armato di tuba, bastone e smoking, che sul Titanic cede il posto ai giovani e affronta la morte come un vero signore.
La bisnonna Gilda invece, rapida penna ed elegante madama carica di brillanti e sentenze, indirizza a un noto giornale una fotografia del suo ultimo bellissimo figlio, biondo con gli occhi azzurri, chiedendo come poteva una creatura così bella appartenere a una razza inferiore.
Quando nel 1943 la situazione a Roma cominciò a peggiorare si dovette trovare una soluzione per scappare ai nazisti che assediavano i posti di blocchi per evitare che gli ebrei scappassero.
Alcuni Bises, De Benedetti, Piperno, riuscirono a fuggire in America e a Buenos Aires, cambiando radicalmente la loro vita e il loro destino, il bisnonno Carlo invece volle rimanere e vide anche 8 camion nazisti portargli via tutti i tessuti del magazzino e tutto quello che aveva costruito in una vita senza poter far nulla, se non fosse per il Principe Francesco di Napoli Rampolla, proprietario del Palazzo Altieri, che riuscì a nascondere parte dei tessuti preziosi restituendoli al bisnonno commosso alla fine della guerra, avrebbe perso tutto.
Dapprima si nascosero nella villa di campagna a Genzano dove furono sotterrati gli amati gioielli di Bulgari della Bisnonna Gilda DISPERATA, dopodichè nel convento a San Giuseppe a Roma, tranne mio Nonno Luciano e suo fratello gemello Ulrico detto Rirì che vennero nascosti sotto falso nome a Formello a casa della famiglia La Ragione dove vivevano anche due tedeschi che non si accorsero mai della vera identità dei due ragazzi.

A Formello il bisnonno aveva una casa che dominava il centro storico, era chiamato “Il castelluccio” che subito divenne il quartier generale dei nazisti. Al suo interno fu murata una stanza con un muro posticcio e nascosto gran parte del “tesoro” di famiglia, dai quadri ai mobili pregiati ecc, senza che i tedeschi se ne accorgessero mai, riuscendo a salvare così alcuni beni che altrimenti sarebbero andati perduti.
Sempre a Formello c’era una vera e propria ditta di falsari, tra cui il podestà Ugo Plini, il segretario comunale Antonio Petrillo, il vigile urbano Barocco, il calligrafo Alberto Bernabei e un tipografo in pensione che costruiva timbri falsi. Tutti loro hanno rischiato la vita per salvare tante famiglie ebree che non vennero mai tradite e che scamparono alla deportazione.

I documenti falsi per il bisnonno Carlo e tutta la famiglia vennero stampati a Formello e consegnati al Convento di San Giuseppe a Roma grazie al fedele autista di famiglia, Renato Fiaccadori, che oltrepassò anche dei posti di blocchi corrompendo, come già avveniva, la polizia fascista con prosciutti e salsicce.
Un solo documento non venne ritirato, quello di Bises Abramo Alberto, fratello del trisnonno Raimondo, che venne tradito da un “amico” e consegnato ai nazisti quel 16 ottobre del 1943 quando i tedeschi rastrellarono il ghetto di Roma e deportarono tutti gli ebrei ad Auschwitz.
E’ lì che morì una settimana dopo, il 23 ottobre del 1943, a migliaia di chilometri di distanza da dove era nato e cresciuto, all’età di 81 anni.

Lui è l’unico Bises tra le migliaia di vittime italiane della Shoah, ma ci sono tanti De Benedetti, Sed, Di Segni, Piperno, Milano, famiglie ebree imparentate con i Bises che furono più sfortunate.
Noi ci siamo salvati, e dico noi perché mi tocca da vicino.
Il Bisnonno Carlo riaprì il negozio e divenne un punto di riferimento per la moda e il tessuto, si comportava come un Papa ed era amato da tutti, la Bisnonna Gilda riuscì a recuperare i gioielli scavando mezzo giardino e facendoseli rubare a Napoli ricomprandoseli subito dopo diventando così una leggenda in famiglia anche tra i suoi pronipoti.
La religione ebraica venne abbandonata da questo ramo della famiglia, alcuni si convertirono al cattolicesimo, sposarono donne cattoliche e quella tradizione che prima della guerra fu fortemente radicata venne spazzata via per sempre.

Io il mio 25% di sangue ebreo lo porto con rispetto, ne sono fiero perché dietro alla mia generazione e prima ancora quella di mio padre, c’è una famiglia che ha subito l’indicibile e che ha avuto la fortuna di possedere i mezzi e di essere circondata da persone che non li hanno mai traditi rischiando la vita per loro.
Ci sono purtroppo tante famiglie che si sono spezzate, amputate di una madre o un padre, sopportando una miseria che non ci immaginiamo nemmeno, sofferenze che se a distanza di 70 anni siamo ancora qui a ricordare è perché hanno davvero sconvolto la nostra società.
Ricordare è quantomeno doveroso, così come una riflessione perché troppo spesso mi chiedo “E se fossi stato lì?” e mi viene un brivido.
Questo è il mio 27 gennaio.


QUANDO IL TUO MONDO ERA UNA STANZA

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Il cabinet di Marie Antoinette.
Mi è tornata alla mente quella sensazione di felicità quando studiavi il pomeriggio ai tempi del liceo con la radio accesa e partiva la canzone del momento, quella che ti faceva dimenticare cosa fosse il pudore e la dignità.
Quella canzone che ripassavi nella testa tutto il giorno e che speravi passasse alla radio prima di andare in piscina e dopo la pausa merenda, così potevi spingere il tasto Rec e registrarla su una cassetta così consumata che il più delle volte pareva un messaggio di Satana dagli Inferi.
Mi sono sentito vecchio, molto vecchio.

All’epoca la tua vita si svolgeva nel tuo angolo di mondo, che era un confine invalicabile per gli altri e un fortino per te, una grotta, una tana, la tua stanza.
In quella stanza avrebbero potuto chiuderci dentro per giorni che saremmo stati felici perché era tutto lì quello di cui avevamo bisogno.
Perché l’adolescenza è così legata a quattro mura e perché quella porta chiusa rappresentava una salvezza e una necessità.
Anche Ariel aveva la sua grotta. 


A 12 anni condividevo la stanza con mio fratello, finché un giorno mi sono preso un castigo epico e non potevo uscire con la bicicletta insieme ai miei compagni di scuola, così ho organizzato un vero e proprio trasloco. Mi sono trasferito in taverna, in una stanza umida accanto al garage dove un divano letto sfondato e una parete vuota riempita con tutti i poster delle Spice Girls sono diventati la mia isola felice.
Le giornate passate ad appiccicare poster, scrivere sul diario, ascoltare una radio che gracchiava mi rendevano felice, avevo arredato quei 10 metri quadri come fossero la casa della mia vita, fa nulla se prima era la stanza dove stendeva mia madre e dove padroneggiava un frigorifero rumorosissimo.
Quell’anno, come sempre, la Nonna veniva da noi a Natale e dormiva proprio in quella stanza che le avevo ceduto con non poco disappunto, mi ricordo che mi disse “E’ inquietante dormire con tutte quelle facce appese alla parete” e io le ho risposto “MA NONNA SONO LE SPICE GIRLS!”.

Ogni adolescente che si rispetti scriveva cattiverie su un diario sdraiato sul pavimento della sua stanza. 

Ai tempi del liceo invece con un principio di reumatismi per l’umidità della taverna tornai alla luce della mia vecchia camera condivisa con il fratello maggiore con cui era una continua lotta alla sopravvivenza. Faceva le nottate a leggere e io dormivo alle 21, fumava e io non potevo tollerare la puzza, io ascoltavo Britney, lui i Led Zeppelin.
A un certo punto fu lui a trasferirsi in taverna e io cominciai un restyling della camera da letto che da grotta divenne un petit cabinet alla Marie Antoinette dove studiavo per terra sui cuscini, parlavo al telefono per ore, sfogliavo ogni e qualsiasi giornale e scrivevo chilometri di diario come un adolescente problematico. E non lo ero affatto.
Anche all’epoca avevo delle fisse che mi portavano alla follia, c’era il periodo in cui collezionavo cartoline e le catalogavo con una foga inimmaginabile, poi venne la mania per le carte da lettere e scrivevo anche al compagno di classico all’ultimo banco con cui scambiavo solo suggerimenti durante le versioni di latino, poi i cd, i ritagli dei giornali, tutto.

Quando invitavi gli amici e non uscivate dalla stanza per ore.
Quante volte abbiamo urlato “CHIUDI LA PORTA” agli invasori, quante volte non siamo stati di compagnia e ci chiudevamo così tante ore in quelle quattro mura che Papà non si rendeva nemmeno conto che fossimo a casa, quanti pugni al muro e quanti pianti disperati a terra perché siamo stati malamente mollati da chi in quel momento era tutto.

E quanto più era disordinata e quanto più eravamo fieri di quell’angolo di mondo in cui eravamo protagonisti di tutto, come quegli adolescenti da film alla Dawson’s Creek, peccato che io avessi le grate così non c’era pericolo che una Joey Potter della bassa padana entrasse dalla finestra senza essere invitata. 

MI PIACE IL ROSA E NON HO PAURA A USARLO

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Tutto ebbe inizio da qui.
Nella lista delle fissazioni di questa settimana c’è senza ombra di dubbio la spasmodica ricerca dell’esatto punto di rosa perfetto per me.
Non penso ad altro, da quando per errore sono inciampato in quei siti dove uomini della troppa moda fingono di telefonare con le mani in tasca e l’occhialetto giusto fingendo ancora di più di non essersi accorti che un fotografo era lì a 15 centimetri di distanza a cogliere l’attimo.

Rosa antico, PERFETTO.
Da farci un pensierino

Quel dolcevita rosa mi ha stregato, ma è impossibile da trovare nonostante abbia pregato tutte le divinità in cui credo, da Subito.it a Depop ma sembra che l’uomo sia avulso dalla bellezza di questo rosa. Così mi sono accontentato di un maglione di cui voglio ignorare la manifattura, di un fucsia quasi frutto di bosco che non è proprio brutto come un tumore.
Qualche giorno dopo però sono tornato accidentalmente ad inciampare nel mondo fatato del rosa dopo che ho visto un altro capo della troppa moda, questa volta rosa cipria così leggero che mi ricordava le perfette nuances nelle case Pinterest.
Emozionato come il giorno di Natale, corro su Asos e la trovo, ma trovo anche una perfetta sfumatura di rosa antico che è uno dei miei colori preferiti fin da piccolo quando accarezzavo le tende in velluto della Nonna e la sua chaise longue perfettamente tappezzata in velluto di raso, ROSA ANTICO.
Che fare? Quale scegliere? Ma indosserò più quella sfumatura o quell’altra?


Così. Più brutto. 
Vorrei vivere qui.
Lo sfondo del telefono, PERFETTO.

Sono dubbi amletici e il mio carattere non mi permette mai di prendere sotto gamba questo genere di decisioni.
Io non ho paura del rosa, l’ho sempre indossato, sia da bambino che da adulto, e se sono nato destinato all’azzurro e alle più svariate delle sue sfumature, io il rosa ce l’ho dentro, nel sangue.
Così, straziato da questa imminente scelta “Rosa antico o rosa cipria?” con Asos che mi metteva le due immagini su qualsiasi sito io visitassi e facendomele apparire anche in sogno, chiedo a biscottino “Quale preferisci?”.
Deglutisce e risponde “Ma, in realtà a me il rosa fa cagare”.
COOOOOOOOOOOOOOOSA.

Fin da piccolo, ROSA.
Ho sentito un dolore al petto inimmaginabile ma sono un combattente, gli dico, dopo aver inspirato “Ok, allora va beh”
“Ma quella rosa cipria è esaurita, hai visto sul sito?”
“No, NO, NOOOOOOOOOO”, anche se in quel frangente ero più proiettato sul rosa antico.
“Eh sì, prendi l’altra allora!” come se io avessi un cuore così versatile e pronto alle scelte ardue della vita.
“Boh non lo so, dai ci penso stanotte” e lui “Troppo tardi, l’ho presa, te la regalo io”.
Questo è quello che intendo io per amore, quello vero, quello con la perfetta sfumatura di rosa.

Ogni volta nella speranza che fosse rosa.



IL BON TON DELLO SMART-PHONE

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Era da qualche tempo che sentivo l’impellente necessità di stilare una piccola lista di buoni comportamenti sull’uso proprio e improprio di questo maledetto marchingegno che a tratti ci ha migliorato la vita, a tratti ci ha completamente allontanato dalla realtà: lo smartphone.
Nei panni di una Lina Sotis, ma senza attico in Brera, anzi Bveva, ho iniziato a pensare alla nostra vita di tutti i giorni dove l’uso spasmodico del telefono è ormai necessario.
Senza demonizzare nulla, al contrario rientro nella categoria di chi usa lo smartphone quasi al limite delle sue capacità, ho osservato le abitudini di chi frequenta una grande città come Milano, perché nella patria italiana del “Devo sfruttare ogni singolo istante della mia vita ottenendo il massimo” spesso vediamo usare il cellulare nei momenti meno opportuni.

Ecco dei piccoli accorgimenti:

SUI MEZZI PUBBLICI: che tu disgraziatamente prenda un autobus alle 7 del mattino per volare dall’altra parte della città o che possa sollazzarti a casa e presentarti in ufficio dopo le 10 trovando il suddetto autobus quasi vuoto, inciamperai sempre e dico sempre in qualcuno parla al cellulare. Le donne solitamente sono animose nei confronti delle colleghe e parlano, parlano, parlano di quella che ha fatto una smorfia a quell’altra, di quell’altra che come si è permessa di non ricordare quell’appuntamento così importante a quell’altra ancora.
Gli uomini invece amano incondizionatamente l’auricolare, perché si sentono Bill Gates e giocano con il mimo alle quotazioni in borsa. Parlano di lavoro con termini stranieri, organizzano conferences calls con l’Australia e alzano la voce quando il loro ego deve ingigantirsi davanti al popolo dell’autobus, anche se in realtà sono capo-cantieri a Marcallo con Casone e hanno i jeans che usano per imbiancare il cartongesso.
Non sarebbe meraviglioso prendere un tram, una metro, un autobus senza quel fastidioso vociare di persone che stanno sistematicamente al cellulare? Perché sarebbe ancora più bello alle 8.20 del mattino non dover esser distratto dalla lettura del proprio libro perché sul più bello senti lei che sale alla fermata di Cadorna e urla all’auricolare “HO APPENA FATTO UNA COLONSCOPIA”.


SU WHATSAPP: tenere le conversazioni di Whatsapp ormai implica un orario lavorativo a tutti gli effetti. Con il fatto delle spunte blu, l’ultimo accesso, le decine di conversazioni multiple di botta e risposta per cui sei a rischio crollo nevrotico se dopo un’ora hai 543 messaggi del gruppo “REGALO KIKKA”, passiamo le giornate a leggere messaggi che se tornassimo agli Sms a pagamento non ci saluteremmo nemmeno più per non spendere. Invece Whatsapp è un fastidioso continuo, perché puoi interagire con una conversazione di gruppo alla volta, oltre è pura follia. Per non parlare delle note vocali, alcune così lunghe che possono essere tranquillamente indicate come sequestro di persona, con quel fastidioso sistema per cui se avvicini troppo  il telefono all’orecchio il messaggio si interrompe, e se invece disgraziatamente lo allontani tutti, e dico tutti, sentiranno la tua amica che urla “Oggi sono isterica, mi sa che mi devono arrivare”.

SIA BENEDETTO IL SILENZIOSO: ormai io uso il telefono senza suoneria e senza vibrazione, se qualcuno mi cerca e non mi trova dovrà essere così fortunato a cogliere il momento in cui ho il telefono sotto coda dell’occhio, altrimenti sarà ricontattato non appena sarò libero e spensierato per farlo. Perché non è possibile vivere in un mondo e districarsi tra una suoneria truzzissima, un’altra rockettara e un’altra ancora che riprende le sinfonie di Mozart. Regola d’oro, in ufficio il telefono resta silenzioso. Nessuno ha voglia di sentire la suoneria dei Kiss rovinare la pausa pranzo ogni santo giorno alle 13 in punto.

“TI DISTURBO?”: si chiama cellulare e ce l’hai sempre con te, questo significa che davvero chiunque può rintracciarti in qualsiasi attimo della tua giornata. Che tu sia impegnato a liberare l’intestino, affrontando un’operazione chirurgica o addirittura, oh ma guarda un po’, LAVORANDO. Così, se proprio non si può fare a meno di telefonare, c’è una parolina magica che aiuta a capire se non è un buon momento. Lo so, sembra incredibile che si possa avere una simile accortezza verso il genere umano ma quel “Ti disturbo? E’ un brutto momento?” ti rende più educato e socialmente accettabile.


Recenti studi scientifici di qualche università impegnata a rimpolpare le notiziole che poi saranno condivise con faccine divertite o disgustate, hanno decretato che il telefono è portatore di un quantitativo di germi quasi pari a una tavoletta di un cesso in un autogrill.
E allora perché al ristorante noi fieri e maleducati appoggiamo il nostro smartphone accanto al tovagliolo come se avesse un posto d’onore e un ordine preciso di una mise en place?
E’ l’uso che ne facciamo e soprattutto nell’educazione che ci imponiamo di seguire che fa di noi dei portatori sani di smartphone.
Abbiamo uno strumento che ci può migliorare la vita e ci può far scoprire ancora di più il mondo, basta che non viva lui per noi.



ANNA DELLO RUSSO: CHE BURDELL

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IL CORVO.
Il mondo della moda è strano, a tratti incomprensibile. Leggi giornali e non capisci se quest’anno ci si veste o ci si affida ai resti della raccolta differenziata, guardi le foto degli invitati alle sfilate e con 2 gradi e la pioggia che tira di traverso alcune hanno crop-top, sandali senza calze e sono cosparse di leggerissimi pizzi a Febbraio, poi però portano inserti di pelliccia a Giugno.
Un calderone di pessimo gusto un giorno e la fiera della bellezza quello dopo, l’unica soluzione è non vivere il sistema moda come una macchina da guerra a colpi di “AMO”, “ADORO”, “MIUCCIA GENIO”, ma farsi un’idea propria che possa portarci ad avere uno stile nostro, riconoscibile e fedele.
Perché io non credo che alcuni capi visti in giro tra i modaioili rispecchino davvero il loro stile, il loro gusto e la loro intelligenza, o forse sono io che ho troppe aspettative da questo sistema solare.

Scintillante alle 10 del mattino, lei può


Come spesso accade dopo qualche anno riguardiamo le nostre foto e quello che indossavamo ieri oggi lo bruceremmo sulla pubblica piazza rinnegando ogni singolo capo e maledicendo il momento in cui abbiamo strisciato la carta con così tanta leggerezza.
Ogni stagione siamo subissati di giornaliste o presunte tali che in punta di tacco si accalcano sul front row, indossano i capi spalla più cliccati, cinguettano con chi è sulla bocca di tutto il web, usano i filtri Instagram più adatti e diventano icone di stile nonostante di personalità nemmeno l’ombra.
E cosa trasmettono? NULLA. IL BUIO.
Con l’avvento di Snapchat mi sono potuto felicemente ricredere, perché nel dietro le quinte della maggior parte delle sfilate di New York si rideva come a una festa del liceo, addirittura le modelle correvano come gazzelle con un sorriso stampatissimo, nonostante indossassero vestiti che le persone dotate di buon senso userebbero per sgrassare il forno, o forse nemmeno.


Darei il mio primogenito per quel turbante.

E avevo anche sottovalutato un personaggio che ora fa parte di quella che viene definita Web Routine, ed è proprio grazie a Snapchat che ormai è come una casa, una tana, quel nascondiglio ludico che costruivi con i cuscini del divano quando eri piccolo.
ANNA DELLO RUSSO.
Non so cosa faccia e ancora non l’ho capito, tantomeno non so come ha fatto a diventare il personaggio che è ma la trovo davvero simpatica, spiritosa, autoironica e gentile con chi le sta intorno.
Tutti la prendono in giro per il suo accento inglese che più che inglese è un barese ingentilito da parole internazionali ma io la trovo spiritosa. E dove sta scritto che deve parlare per forza un perfect english con accento british?

Indiscutibile regina dei front row e dei binari del tram che affronta senza timore di essere tirata sotto senza pietà dal tramvista del 9 in viale Piave prima e dopo la defilè di Dolce e Gabbana, Anna Dello Russo veste frizzante e spesso di merda, con colori cacciati nella più totale casualità a cui spesso abbina una veletta per nascondere un leggero strabismo che ricorda molto Isabella Blow.
Anna canta Fashion shower enunciando delle regole basi nel mondo della moda “Incontri qualcuno con il tuo stesso outfit, grida WONDERFUL, YOU DID THE RIGHT CHOICE e quando esce da una sfilata bersagliata da fotografi e gente che la chiama a gran voce, lei si lascia a un sobrio, elegante e charmant “CHE BURDELL”.

NON E' LA RAI (E non si capisce che stagione sia) 

Anna nuota tutti i giorni in una piscina sempre vuota, pedala in bicicletta sotto alla pioggia alle sei del mattino in una deserta Paolo Sarpi quando non ci sono in giro nemmeno i cinesi con i bancali, organizza il suo magazzino “This is my archive” con tutti i suoi vestiti e si diverte con la sua “Squad” pronunciandola come squat.
Non mi stupirei se annunciasse il ritrovamento di una mummia egizia sotto le scarpe di qualche stagione fa e non mi stupirei se tra le opzione “Tenere, dare, fotografare” scelga un mummia selfie.


Mi fa ridere, quella risata simpatica che ti faresti guardando i contenuti della tua amica, e mi ha fatto capire quanto la carta di una rivista patinata non possa raccontare una delle caratteristiche più belle di una donna: l’ironia. 

Quando fai tardi la sera e la veletta ti salva le occhiaie.

IL (NON) FANTASMA DEL GALLIA

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L'EDEN.
Una vita che conosco Milano e cerco di scoprirne angoli remoti, sfidando piccioni che volano pericolosamente ad altezza narice e facendo lo slalom tra quelli della troppa moda “Sai io lavoro CON Dolce & Gabbana” “Ah davvero e di cosa ti occupi?” “Sono sales business store manager” “Ah, quindi pieghi le magliette che tenti di vendere ai truzzi di Gaggiano, capisco”.
Ma c’è solo un luogo che mi ha sempre un po’ fatto venire i brividi e mi ha affascinato per quel suo sapore misterioso e soprattutto, maestoso.

L’albergo Gallia, quell’imponente palazzo che affianca la Stazione Centrale di Milano quasi a darsi una spallata per imporsi come protagonista di Piazza Duca D’Aosta.
Chi vince la gara di maestosità? È molto difficile definire quale dei due sia il più impattante, certamente la Stazione Centrale è uno di quei luoghi in cui l’architettura fascista del 1930 ha sfoggiato tutta la sua forza divenendo culmine di grandezza, di un egocentrismo sublime. Ecco perché ogni volta che ci troviamo su quelle scalinate pensiamo di essere Serena Van Der Woodsen paparazzata di ritorno a New York come vuole la prima puntata di Gossip Girl.


LA HALL (con divani di velluto di raso da togliere il fiato) 

Il Gallia invece sembra spostato nell’arco di tempo e invece è quasi un fratello gemello della Stazione Centrale, perché a ingannare è quel sapore liberty, con le sue decorazioni di fine Ottocento proiettate già nel futuro di quel 1927, data della costruzione del Palazzo Gallia.
È il 1932 quando viene inaugurato l’albergo che diventa subito un salotto mondo milanese, tra ospiti in partenza e ospiti in arrivo in questa città che ha tanto da sfoggiare, prima di tutto questa eleganza sofisticata che ci ha sempre contraddistinto.
Visto così lo si trova elegante e suggestivo ma nella mia mente da bambino era il perfetto luogo infestato da fantasmi, lo scenario di qualche storia horror con i suoi lunghi corridoi e le sale imperiali. Ecco il motivo di quel fascino che ha sempre esercitato su di me.
Così, poterlo ammirare in tutte le sue stanze dopo il restauro dell’architetto Marco Piva che ha reso l’albergo in Excelsior Hotel Gallia, è stata una grande emozione perché erano anni che volevo esaudire questo desiderio.

Il ristorante.

A farmi da guida una sorridente Domenica che ha avuto la pazienza di raccontarmi l’evoluzione di tutti gli spazi reinventati dall’architetto, tenendo conto però della storicità del palazzo. E io ero un continuo “Aspetta che faccio la foto”, “Oh questo lo voglio far vedere su Snapchat ai miei amici”, “OH CHE MERAVIGLIA VOGLIO VIVERE QUI”.
Il lusso ricercato e non ostentato, la bellezza del design tutto Made in Italy, dal lampadario alla poltrona della hall, perché sì, in Italia sappiamo fare tutto senza eguali. Elegante la zona bar, il ristorante curatissimo e anche intimo, così come splendida la terrazza che ha una vista sulla Stazione Centrale unica nel suo genere. Ti sembra di poter toccare con un dito cielo e Pirellone, e quando dico “dito” intendo anche il medio che avremmo potuto fare dalla terrazza quando è apparsa la scritta “Family Day” sul Pirellone.

1932, l'originale scalone monumentale del Gallia. 

Il dettaglio che più mi ha emozionato? Alcuni direbbero la SPA, altri la suite imperiale di 1000 metri quadri con terrazza privata, altri il cinema da 20 posti (sogno della vita: prendere una stanza e vedere Chi l’ha visto? al Gallia) ma io no.

Io mi sono emozionato davanti allo scalone monumentale, originale del 1932, lasciato a testimoniare i mille passi che ha visto e sostenuto, a rappresentanza che il passato e la storia hanno un valore inestimabile di cui spesso ci dimentichiamo.

Il Gallia è un vero gioiello di Milano, un luogo verso cui alzare gli occhi quando troppo di corsa e troppo in affanno ci troviamo in Stazione Centrale. 





HO COMPRATO LE FRIULANE E NON HO PAURA A USARLE

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Quando la piccola principessa Aurora è nata le tre fate le hanno donato bellezza da togliere il fiato, capacità canore degne di Mariah Carey quando sembrava stesse soffocando e invece cantava e una vita serena fino ai quei fatidici 16 anni che l’avrebbero portata a pungersi con l’unico arcolaio del regno, per poi esser risvegliata dall’aitante principe Filippo.
Quando sono nato io evidentemente qualcosa è andato storto e le tre fate erano troppo occupate a spargersi olio di cocco su qualche spiaggia e quel 18 agosto mi sono stati donati in ordine: una stempiatura progressiva, un occhio chiaro che ha fatto credere a mio fratello che io fossi solo un bambino adottato e un dubbio gusto sulle calzature.

Ora che è ufficialmente iniziata la stagione delle caviglie al cielo ho tirato fuori le mie scarpe estive, tra il mocassino da barca che reputo un must irrinunciabile anche se la barca non ce l’hai e al massimo sali su un pedalò a Cattolica, o le mie preferite della vita: le espadrillas.
Come un pellegrinaggio religioso, ogni anno appena richiudo il cassetto delle calze fino a Ottobre, vado in quello che a mio parere è il santuario della scarpa a Milano: Gallon in Piazza Sant’Eustorgio.
Uno di quei negozietti vecchio stampo di calzature dove i signori over 70 trovano sempre quello che fa al caso loro e alla loro lombosciatalgia, per una camminata più “fluida”, sempre di moda, estate dopo estate.




Le classiche scarpe “No dai, sembrano di mia Nonna” che invece io comprerei a mazzi di dodici perché appunto, sono classiche e intramontabili.
Oltre alle espadrillas di ogni colore per cui è necessario un summit Pantone tra i più della Terra in fatto di moda, quest’anno mi sono lanciato sulle Friulane, quelle pantofoline di velluto che andavano di brutto quando Louis XIV si trasferiva a Versailles.
Scarpette leggermente scollate, chiamate anche Scarpèt-a-porter, nella tradizione friulana erano indossate dalle spose nel giorno delle nozze e nei secoli sono diventate calzature iconiche portate non solo tra le mura domestiche rinforzandole con una suola.
Non sono adatte per una scampagnata tra le frasche o la traversata dei Pirenei ma belle da portare con disinvoltura nelle cittadine di mare con un camicione fresco (NON VEDO L’ORA!) e anche in città.

Queste solo se siete Marta Marzotto.


Con quell’aria da “Scendo a prendere il giornale in pigiama e poi torno a letto a farmi una bella colazione”, perché giacca da camera, completi quasi utilizzabili anche sotto le coperte e babbucce di velluto, diventano il trait d’union di una moda da boudoir, che è la mia preferita s’intende.
Un’unica regola quella delle friulane: di velluto o di seta (quest’ultime soprattutto se andate in viaggio in Oriente) e in tinta unita.
E un piccolo consiglio: cercate di cacciarvi in bocca lo spazzolino elettrico prima di accenderlo altrimenti spargerete il dentifricio su tutte le superfici nel raggio di 5 metri, compresa la punta di quel paio di friulane in velluto verde appena comprate proprio come è successo a quel goffo del sottoscritto.  








UNA VITA SENZA BOTOX: ALLEGRA CARACCIOLO DI CASTAGNETO

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Le sorelle Caracciolo di Castagneto.

Quello che ormai manca è lo stile, lo charme, quella capacità intrinseca di essere nel posto giusto vestiti nel modo giusto, così andiamo al MET con un braccio meccanico, un perizoma di pizzo o un abito che non incastreremo mai sotto al tavolo durante la cena placèe.
(Notare il mio plurale, ANDIAMO, dove io al massimo vado a prendere la pizza da asporto dal cinese sotto casa di biscottino come massimo esempio di mondanità).
Più vedo cafone in giro con hot pants e una ritenzione idrica ostentata come fosse il pezzo forte della carrozzeria, con quel fare maleducata tra la cicca masticata e il mollettone di plastica in testa, e più andrò alla scoperta di icone del passato capaci di farci sperare nel mondo.

Vestiamoci così, sempre.


Forse ai tempi delle nostre nonne era più facile comportarsi a modo, essere educati, avere uno stile personale e ben definito nel vestirsi e nel porsi con gli altri, non lo so, sta di fatto che quando mi capita di sfogliare le fotografie di Avedon, di Beaton e Mulas, rimango spiazzato dall’incanto degli abiti, da quel sapore di estrema eleganza mai snob e mai antipatica, ecco.
Perché invece spesso vedo modelle e socialitè degli anni 2000 fotografate avvolte nei loro cappotti ultima stagione e quello che percepisco è antipatia, così a pelle, senza motivo e senza un perché.

Mi ha sempre affascinato molto la figura patinata e quasi irrealistica di Allegra Caracciolo di Castagneto, classe 1945, figlia di un nobiluomo napoletano un po’ decaduto e Anna Visconti di Modrone, nipote di Luchino Visconti e cugina di un’altra icona di charme, Marella Caracciolo di Castegneto. Entrambe sembrano destinate alla moda e al costume, entrambe sposano un rampollo di casa Agnelli ed entrambe entrano a far parte di quel gusto tipicamente anni ’60 con quei salotti in cui ricevevano la mondanità che conta tra le tappezzerie damascate e i posaceneri di design.
Prima delle bacheche di Pinterest, prima dei following su Instagram, Allegra diventa subito da giovanissima una ragazza di buona famiglia da cui trarre ispirazione per il suo stile, definito ed energico.



GLI OCCHI.

Pantaloni a palazzo, pigiama quasi esotici, gonne lunghe e geometriche, pose da Cleopatra e un viso che ritengo magnetico. Occhi grandi, allungati e messi in risalto dal contorno scuro, cofana di lacca ben pettinata alla moda e quello chic aristocratico che non si compra.
Il suo tratto distintivo è questo collo molto lungo, così come anche Marella, che in una foto di Richard Avedon sfiora la fantascienza ma che trovo ipnotico.
Un po’ levriero afghano, un po’ felino Allegra è un esempio di sobria eleganza, quella ricercata e appropriata al ruolo e all’occasione. Vera ispirazione.

Allegra Caracciolo Agnelli vive a Torino e conduce una vita ritirata, si batte per la lotta contro il cancro e soprattutto non fa uso di botox, prendiamo esempio. 



Il collo lungo come segno distintivo di grande raffinatezza.


HO COMPRATO CASA: CAZZO SONO DIVENTATO GRANDE

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Quando firmerò l'ultima rata del mutuo. 
Ebbene sì, ho comprato casa. E in realtà non so nemmeno bene come sia successo perché ho sempre pensato a me come uno zingaro di questa città in preda a case già vecchie quando era vivo Garibaldi, senza residenza propria, senza capacità cognitive su come scegliere un mutuo e inadatto a comprendere cosa fosse un tasso fisso e cosa un tasso variabile al 2,7%.
Io bevo ancora il Latte & Nesquik.
Per fortuna ho un padre accorto e attento che un giorno disse “Bisogna investire nel mattone” perché stufo di vedermi con le caviglie nell’acqua perché un giorno esplode la lavatrice e il giorno dopo piove per giorni dal sesto piano per una perdita in cucina. Così fissando un appuntamento con l’agente immobiliare ho visto questo 50 metri quadri (qui scatta la vocina da Paola Marella) al quarto piano di una zona che per darmi un tono chiamerò Lambrooklyn ma è comunemente chiamata Lambrate, che suona come una periferia più nera ma le cronache mondane dicono essere la nuova zona di Milano. A dirlo ovviamente è chi vive con le unghie e con i denti in Brera.
“No io non vado nemmeno a vederla mamma, dai, L-A-M-B-R-A-T-E, senti già come suona male”.
E invece.

Sono entrato dentro questo appartamento e volevo uscire, c’è chi dice che lo capisci subito quando è la casa giusta (Non si dice anche dei vestiti da sposa per poi scoprire che gli daresti fuoco con l’alcool?) ma non è stato così per me. Ci è voluto del tempo, vari sopralluoghi di una zona che non conoscevo e che invece mi piace sempre di più, il confronto con altre buie catacombe al primo piano “Scusi ma sparano i botti qui sotto?” “Sì ma non si preoccupi, non è nulla” ed erano le cinque del pomeriggio e secondo lui io potevo stare tranquillo a sorseggiare del vino su quel terrazzino 1 metro x 40 centimetri che lui definiva “Delizioso e ABITABILE”.
Ci sono voluti i consigli di mia madre, impareggiabile arredatrice di interni grazie a “Find Living” e imperiosa agente immobiliare, grazie alla suddetta Paola Marella, che una volta al centro di quella stanza tinteggiata di VIOLA-CON-SFUMATURE-LAVANDA, mi disse “Ha del potenziale, fidati di me”.
Papà Sergio è stato più difficile da convincere perché ogni acquisto non può essere compulsivo e di istinto ma richiama attente elucubrazioni, per cui con Mamma abbiamo dovuto intraprendere la strada della strategia femminile, ovvero: avviare una serie di ragionamenti per cui sarebbe stato lui a decidere che ok quella casa andava bene sostenendo vita natural durante che è stato lui a capire per prima che era la casa giusta, quando in realtà noi eravamo già convinti da qualche secolo.
Alcuni di voi potrebbero dire “Eh ma compri casa e decidono i tuoi genitori?”.


Qui è il punto. Io ho comprato casa ma se l’ho fatto è soprattutto grazie ai consigli, alle attenzioni e alla cura che i miei genitori hanno avuto nei riguardi di questo mio importante passo, e il loro punto di vista è stato fondamentale su tanti aspetti, tipo dirmi che forse le porte rosa cipria sono un po’ eccessive a meno che non ti chiami Hilton di cognome e Paris di nome.
(Per non parlare di quando ho saputo che si possono fare rosa anche le fughe delle mattonelle, ma quello è un altro capitolo).
La notte prima del rogito ero così agitato che mi sono dovuto sedare con una maratona dei film di Federico Moccia, ho quasi googlato “Come ci si veste dal Notaio” perché fino a quel momento il Notaio era quella figura leggendaria che ti immagini sempre come un 90enne immerso in scartoffie polverose. Invece scopri che ha uno studio pazzesco arredato con mobili di design in un palazzo meraviglioso e che è pure spiritoso.

Così spiritoso che gli si accende una lampadina nel momento della firma dell’atto e capisce che sono io, proprio io, quel ragazzo che la sua compagna segue su Snapchat e che fa quelle mini lezioni di storia dell’arte che lui, posso capire benissimo, non ama particolarmente.
Il mio Notaio quindi fa ufficialmente parte della categoria compagni-fidanzati-mariti che quando sentono la mia voce su Snapchat urlano e si inventano una partita di calcetto che non esiste.
In quella situazione paradossale io paonazzo firmo mille documenti e da una parte il Notaio mi fa la foto da mandare subito alla sua compagna, dall’altra mia madre che con l’occhio lucido me ne fa un’altra da far vedere a mio padre. Testimone di tutto questo delirio l’agente immobiliare e la proprietaria che si chiedevano cosa diavolo fosse Snapchat, e la zia Delfina che ha raccontato a tutto lo studio notarile di quella volta che a sei anni sotto al Duomo urlai “LA MADUNINA E’ LA MIA VITAAAAAAAA”.
Forse è stato quel giorno sotto la Madunina che ho deciso che sarei stato più milanese che romano e forse è stato proprio quel giorno che ho donato il mio cuore a Milano, la città della mia PRIMA VERA CASA.

IL FU DEFUNTO 2002

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ICONICA.
Non mi era mai capitato di pensare tanto alla mia adolescenza come in questo periodo e da quando conosco Giulia (Rockandfiocc) molte volte ci troviamo a ricordare di quei pomeriggi interi avvolti nei poster dei nostri beniamini con la musica a tutto volume, senza interruzioni esterne se non quello delle nostre mamme che urlavano “ABBASSAAAAAAA”.
Non avevamo internet, i cellulari erano piccoli e bastavano a malapena a mandare un centellinato SMS, studiato nei minimi dettagli, privi di punteggiatura per rimanere nei caratteri e non sforare. Le nostre stanze erano grotte sporche e disordinate, dove quello che non mancava mai era un CD masterizzato da un amico di un’amica con una paghetta settimanale più alta della nostra e che aveva comprato l’originale alla Ricordi in Galleria per 20 euro.

Era il 2002 e una mattina di ottobre facevo la solita colazione con Latte & Nesquik sintonizzato su Mtv come sempre prima di andare in bicicletta al liceo, e a un certo punto è partito l’intro di un video di cui non avevo letto il titolo. All’inizio non capivo chi fosse, sentivo qualche gemito e ho pensato a Britney Spears ma appena ho visto l’inquadratura dell’occhio azzurro ho capito subito: CHISTINA AGUILERA.
Lei “vestita” con un bikini e i pantaloni strappati sul sedere da cui usciva la mutanda con la scritta DIRRTY, titolo soft di una canzone che ha lasciato traumi adolescenziali su giovani eterosessuali per la procacità delle immagini, su ragazzine in crisi con se stesse per quel fisico da urlo, e soprattutto per giovani omosessuali alle prime armi che in piedi sul letto imparavano parole e balletto a memoria.



Da quel momento la follia, ascoltavo quel cd, Stripped, di continuo, senza interruzione e senza pace. Mi ricordo che andavo con mia madre al Carrefour e mentre lei faceva la spesa io mi rintanavo nel reparto musica e ascoltavo il Cd quando meravigliosamente era in prova ascolto tra gridolini e urletti di cui non mi accorgevo nemmeno, ero troppo assorto.
Quel poco di inglese che sapevo l’ho dedicato a capire di più certe canzoni e su Fighter da lì all’eternità sapevo che sarebbe stata un po’ la colonna sonora delle mie pessime relazioni. Quando era mio fratello a occupare lo stereo mi rifugiavo ad ascoltarlo nella macchina di mio padre con strane perplessità dei vicini di casa che non capivano cosa ci facessi al posto guidatore con una penna in mano fingendo fosse un microfono.
Ore intere durante quel lungo inverno a scrivere, studiare e ad analizzare i miei psicodrammi da 15 enne con l’apparecchio e i primi peli sul labbro in funzione di quelle 21 canzoni andando oltre all’apparenza di una bionda provocante, e quelle canzoni ancora oggi dopo 14 anni mi ricordano le stesse emozioni.


Come quando si legge un libro e ci si immagina lo scenario e i personaggi e saranno sempre così, lo stesso per questo album. Ogni canzone mi ricorda un momento di quell’adolescenza nella fredda e umida pianura padana, di quando con le cuffiette in piedi allo stereo sembravo in uno studio di registrazione e invece urlavo frasi sconnesse stonato come una campana.
Ma come ne sanno i 2000 dei pianti sul cuscino ascoltando Beautiful perché a 15 anni di beautiful non hai nemmeno il lobo dell’orecchio? Sono fasi della vita e se mi guardo indietro provo una grande tenerezza per quello che ero a 15 anni ma anche un pizzico di invidia.

Avevo dei capelli pazzeschi.

KATE DAVANTI E DIETRO TUTTI QUANTI

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FAMILY.
Ci sono due eventi della Royal Family che aspetto impazientemente: il Garden Party di Maggio nel giardino (che poi è qualcosa come 1000 ettari di erba finissima tagliata perfettamente con le forbicine delle unghie) e il Royal Ascot, le gare dei cavalli che ci interessano solo per lo sfoggio di cappellini di ogni forma e dimensione.
Al primo la Regina arriva a piedi, sempre con borsetta tenuta al gomito come se dovesse prendere la circolare 91 per andare a prendere una ricetta dal medico, ad Ascot invece su una deliziosa carrozza scoperta salutando la folla, accompagnata dall’ormai mummificato, ma sempre arzillo, Principe Filippo.
E puntualmente di chi si parla sempre se non di Kate Middleton? Due anni fa sfoggiò un abito giallo limone e che le stava anche un incanto maledetta lei e i suoi geni che dovranno studiare in laboratorio, quest’anno invece lo stesso abito con cui battezzò il principino George.
SATANA

Una scelta spontanea? Una svista? Macché, minimo ci sarà stato un conclave segreto con 8 guardarobiere armate di fogli exel e grucce meccaniche che urlavano alla semplicità di un abito di “seconda mano” per essere più vicine al popolo, decisione poi sigillata in Parlamento.
L’importante è che i giornali titolino “KATE UNA DI NOI”, “KATE INDOSSA UN ABITO DUE VOLTE”, “KATE ACQUISTA DA ZARA”, dove Zara non è l’altra nipote (anche lei bellissima) di Elizabeth.
Due sono le verità a riguardo: è tutto studiato e lei è fin troppo bella e perfetta. Così perfetta che può anche indossare un tacco 12 a un Garden Party senza sprofondare nelle viscere della Terra, perché ormai abbiamo constatato che è Satana in persona.
A sprofondare invece sono sempre le due povere cugine, Beatrice ed Eugenia, etichettate come le bruttine della famiglia, le figlie di quella che gentilmente è definita come “la mignotta di Buckingham Palace”, Sarah Ferguson.


BEATRICE DI YORK (postura al "prendo un po' di vento tra le cosce")

Le due figlie di Andrea, fratello di Carlo, sono principesse reali MA non essendo prime nell’ordine dinastico verso il trono, vengono un po’ eclissate e l’etichetta prevede che non si avvicinino troppo a Will & Kate durante le visite ufficiali e gli eventi mondani.
Le prendono in giro, le fanno sempre fare Anastasia e Genoveffa perché ormai sembra quello il loro ruolo, solo perché non hanno le gambe lunghe, non sono magre, e non hanno i capelli sempre perfetti e uno zaffiro enorme che fu di Lady D, ma io voglio dire basta.
Beatrice in particolare è la mia preferita, perché un po’ cavalla e un po’ impacciata, e mi ci rivedo quando agli eventi mondani non esce bene in fotografia nemmeno se dall’altra parte dell’obbiettivo c’è Mario Testino.

Eugenia che cerca disperatamente di procacciarsi un nobile figlio cadetto.
I giornali suppongono che le due cugine non amino Kate, perché fa più eco una loro presunta antipatia perché le rendi più reali e vicine a noi, ma magari non è proprio così e hanno una cordiale sopportazione che varia da “Sta stronza” al “Questa mezzosangue”.

Ah, quanto è dura la vita a Buckingham Palace. 

MISSION POSSIBLE: IL JEANS PERFETTO

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Mille sfumature di Denim.
Se aprite improvvisamente il mio guardaroba avete due rischi:
1-      potrete causare una valanga inattesa
2-     potrete capire immediatamente che la maggior parte dei vestiti provengono da altri guardaroba quali prozio Ulrico, Nonno Luciano, Nonna Giuliana, Papà, prozia Ninetta, Mamma, fidanzati attuali, fidanzati passati ecc.
3-     potrete essere anche fagocitati da un accumulo compulsivo di jeans.
Il jeans, il meticoloso Denim, per cui io ho una grande dedizione ma anche un certo timore.
Perché nessun capo d’abbigliamento è temuto, odiato e amato quanto il jeans. Quando ero piccolo andava alto e risvoltato, quando ero adolescente invece così a vita bassa che rischiavi le coliche renali al primo accenno di freddo, poi lungo che strusciava a terra e tua madre urlava “TIRALI SU’SEMBRI UN BARBONE”, poi a zampa, poi skinny che ci voleva la vasellina per infilarli, insomma un dramma.
Così un giorno mi ha contattato BERTO, un’azienda leader nel settore dal 1887, il guru dei jeans, l’olimpo del Denim, tutto quello che speravi di sapere nella vita sul jeans, con un unico grande e immenso obiettivo: farmi i jeans su misura.

Le Thelma e Louise del DENIM.

Con Giulia (RockandFiocc) siamo partiti alla volta della meravigliosa campagna veneta dove Berto ha le sue storiche radici in un complesso in cui realizzano tutta la tela del jeans per poi venderla ai grandi marchi di moda, e abbiamo potuto assistere a tutta la dinamica del filato.
Perché nell’era del consumismo si pensa “Ah beh questo jeans costa poco ok” ma nella realtà un filato di ottima qualità segue standard di realizzazione rigidi e con tecniche specializzate che nulla hanno a che vedere con quegli scaffali  9,99 euro.
Nei capannoni di Berto si segue tutta la fase di studio e progettazione, dal filato di cotone tinto nell’indaco svariate volte, per ottenere tutte le varianti di blu possibili e immaginabili fino alla tela che poi sarà tagliata e cucita per finalizzare il jeans, quello perfetto.
Un’azienda che ha due caratteristiche imprescindibili: il Made in Italy e la sostenibilità, perché sempre di più nel mondo della moda si capisce quanto sia importante l’aspetto sostenibile delle sue produzioni con macchinari moderni, efficaci che possano evitare un impatto negativo per l’ambiente.
E Berto è sul podio, con premi riconosciuti a livello internazionale e una produzione che vanta le case di moda più importanti del mondo.
E poi ci siamo io e Giulia.

Marly la fata turchina del DENIM.

Tre malati del DENIM in una foto sola.


La sfida più ardua che dura è questa: confezionare il JEANS PERFETTO a questi due che fanno spedizioni punitive a Piazzale Cuoco per trovare Levi’s 501 a 2 euro sbagliando sempre taglia, con lei che compra ma non mette perché “Sto 8 ore seduta in ufficio e preferisco i pantaloni di lino con l’elastico” e Lorenzo che indossa jeans che appartenevano al primo fidanzato del liceo di Giulia, oltre e oltre la seconda mano.
Il primo passaggio è stato chiuderci in una stanza con almeno 40 jeans di tutti i modelli, colori, forme, e capire quale poteva essere il nostro, quello più adatto alle nostre strane forme per farci sembrare più in linea con il nostro stile.
“Questo va bene per te ma più a vita bassa” diceva la stylist con io che continuavo a tirarmeli su fino all’ombelico e lei che tirava giù inconscia che ormai ho una certa età e la pancia deve essere ben coperta.
Marly, armata di spilli, metro da sarto e occhio allenato, mi ha fatto la radiografia e ha capito subito quello che serve a me, un jeans che non mi abbassi ulteriormente e che caschi bene sul sedere.

Possiamo tenerti la telina del cartamodello?

Sono tutto spillato signori perché SONO DIMAGRITO SIGNORI.

Sul colore sono andato sul sicuro, il classico 5 tasche azzurro con le cuciture color tabacco, perché sì, è così un jeans su misura che io e Giulia abbiamo passato almeno 20 minuti a capire di che colore volevamo le cuciture.
Tabacco? Grigio? Nere? Gialle? Alla fine vince il grande classico, perché è un jeans perfetto deve essere anche a prova del tempo ed essere così classico da vivere imperituro attraverso i frivoli cambiamenti della moda.
Il giorno del fitting, un mese dopo circa, abbiamo provato la telina, il cartamodello, con la paura agonizzante del “ODDIO E SE SONO INGRASSATO?”, ma in realtà ho potuto festeggiare perché sulle misure prese precedentemente c’erano alcuni centimetri che ballavano.
Io contento, la stylist e la sarta un po’ meno.
Ci siamo sentiti un po’ come quelle celebrities riempite di spilli e punti prima di un red carpet, ma senza guaina contenitiva, in attesa di una grande entrata sublime davanti agli occhi increduli dei passanti.
Perché sembrerà incredibile ma quando mi chiederanno “Che belli questi jeans ma dove li hai presi?” potrò finalmente rispondere “Ah no sai, sono una cosuccia, me li ha fatti Berto su misura, niente di che”, anziché “Oviesse bambino” come è capitato molto spesso.


VOGLIO UNA CASA ARREDATA DISNEY

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In questo periodo quello che sovente mi dico da solo è “RESISTI, RESISTI”, perché il desiderio di entrare finalmente in quella che sarà finalmente casa mia e che rispecchierà, spero, carattere, personalità e pessimo gusto del sottoscritto. Vorrei che tutto fosse pronto nel giro di uno schiocco di dita, senza per forza passare dal tragico momento del bagno ridotto in macerie, degli spazi pieni di calcinacci e della grande immaginazione “Qui ci sarà l’antibagno anche se adesso non lo vedi”.
Un altro momento alquanto difficile è la scelta del mobilio che per una casa di 50 metri quadri si riduce a cucina, divano, libreria, letto e armadio, anche se detto così sembra che andrò a vivere in una severa abitazione della Russia comunista. Nella realtà io ho già dei mobili e degli accessori che però non servono a nulla e che forse sarebbero stati un passaggio secondario.

Come quella consolle bianca per il corridoio dove già mi immagino un delizioso svuotatasche, un vaso di fiori sempre freschi, una abat jour di Limoges e qualche foto di famiglia in bianco e nero, oppure quella specchiera degli anni 40 trovata in un mercatino che metterò in bagno. Ma il pezzo d’arredo di cui sono molto fiero è quel lampadario a forma di tazzine da tè di cui forse mi sentirò un attimo dopo che l’elettricista l’avrà montato piangendo in un angolo.
Girando per quegli enormi magazzini di mobili un momento vieni acciecato da quella cosa piena di cristalli che è un letto oppure ti sembra di voler una casa tutta shabby chic per poi bruciare tutto in un futuro in cui rinnegherai questo stile così lezioso. Al Mondo Convenienza poi non avrei mai pensato di trovare quello che mi piace e che fa al caso di uno che la cucina non la metterebbe e che vuole solo un enorme armadio dove finalmente avere tutto il guardaroba sotto al naso, compreso uno scompartimento segreto dove nascondere un pacco di Gocciole al cioccolato per le emergenze.

E qui gli snob “Mondo Convenienza? No dai, che cheap”, e invece per chi come me non ha un budget da mille e una notte, anzi dovrebbe nella notte andare in giro per Milano a vedere di recuperare qualcosa destinato all’AMSA, è un paradiso.
Così tra la cucina SELLY, l’armadio ELEONORA e il letto STONE  ho quasi scelto il mobilio con una smorfia di dissenso perché fossi il capo marketing supremo di Mondo Convenienza chiamerei i mobili come le principesse Disney.

Non sarebbe meraviglioso dormire su un letto AURORA? Cucinare sui fornelli della tua cucina BIANCANEVE? Scegliere cosa metterti esplorando la tua cabina armadio CENERENTOLA e specchiarti lavandoti i denti nello specchio ARIEL?
In fondo sogniamo tutti quei mobili, quelle case, quegli arredi che abbiamo visto e stravisto nei cartoni animati della Disney e io in particolare desidererei alcuni di questi.

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IL LETTO AURORA.
-         - Il letto di Aurora perché non sarò la Bella addormentata nel bosco anche se venire a casa mia a Lambrooklyn per chi non è abituato sembrerà un po’ attraversare la foresta di rovi, ma quel baldacchino con quel copriletto sembra davvero comodo comodo.

LO SPECCHIO DI ARIEL

-         -La specchiera di Ariel dove con le sorelle fa le moine e si siede per mettersi il fiore tra i capelli, altro che arredo bagno 75 euro all’Ikea.

Così sulla Billy dell'Ikea.

-          -  La libreria di Belle ne “La Bella e la Bestia” con la scaletta scorrevole così posso mostrare i miei libri di Camilla Cederna e la mia collezione di biografie storiche. (Attenzione da notare l’umiltà con cui cito la libreria della casa di Belle e non la biblioteca della Bestia che va beh, è un sogno senza esito positivo).

NIENTE VOLIERA?
-        - La voliera di Jasmine in Aladdin perché anche se non ho uccellini, canarini o purtroppo pavoni una voliera bianca da usare come serra mi piacerebbe tantissimo.

Quello che non capisco è perché non ci sia un classico Disney dove la protagonista deve acquistare, ristrutturare e arredare casa tra mille difficoltà ma alla fine il risultato è strepitoso. Perché queste principesse al massimo ridanno lustro a un palazzo un po’ malconcio ma non devono mica scegliere le piastrelle dal capitolato, parlare con l’idraulico per la piletta del bidet o conversare con l’elettricista che ti dice “Ma il contatore quanti KW ha?” come se tu sapessi anche come è fatto un contatore.

Voglio tornare bambino. 

TAKE ME BACK TO VERSAILLES: Jean Marc Nattier

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Jean Marc Nattier. 
Ci sono giorni in cui la nostalgia per tempi che furono è così tanta che mi ritrovo la sera a scrivere immerso su Google Immagini vivendo epoche non mie, perché quello che facevamo ieri è alle volte più bello e aulico di quello che facciamo oggi, in particolare nell’arte.
Se oggi ci stipiamo su una passerella arancione creata sul Lago d’Iseo da uno che si chiama Christo chiedendoci prima come ci si vesta per camminare sulle acque e dopo quale sia l’intento dell’opera, ieri l’arte era spontanea e più sofisticata.

Madame De-la-Porte

E io che amo in particolare l’arte del ritratto mi sciolgo d’emozione guardando i vari dipinti settecenteschi di damine e cavalieri, tutte un fiore, tutte un pizzo, tutta una spolverata sulle parrucche incipriate.
Uno dei più grandi ritrattisti della Francia barocca fu Jean Marc Nattier, un pittore pacioccone che disse “Ok” e dipinse il volto plumbeo di Pietro I zar di Russia e della sua incredibile moglie Caterina, senza però stabilirsi a San Pietroburgo perché troppo affezionato alla vita di Francia.


Dove per Francia si intende il bagliore di Versailles.
Madame Pompadour. 
Qui inscenò le classiche e leggiadre damine settecentesche portando sulla tela il carattere determinato di una certa Madame Pompadour, la favorita di Louis XV, nelle vesti di una non casuale Diana dea della caccia.
Così come le figlie di Louis XV, le affezionate Victoire , Adelaide e Sofia, le tre zitelle che vissero a corte accanto al padre prima e al nipote Louis XVI poi, spettegolando nei boudoir con l’austriaca Marie Antoinette.


Madame Victoire.
Madame Marie-Adelaide.
Madame Sofia.

La leggenda di casa Bises racconta che il bisnonno Carlo avesse acquistato a Parigi un ritratto di Nattier molto grande e imponente, poi misteriosamente dichiarato falso dopo la sua morte e venduto come crosta a un antiquario scrupoloso, ancora oggi dopo 50 anni si pensa fosse un complotto ereditario e che qualcuno fosse d’accordo con l’antiquario azzeccagarbugli.

Marie Antoinette con le zie di Louis XVI, tratto dal film di Sofia Coppola.

Così a me non resta che guardarlo sui libri.
O qui sul mio profilo Instagram preferito in assoluto.
Per immergersi del tutto nel savoir faire baroccheggiante di Versailles consiglio la biografia di Madame Pompadour e quella di Marie Antoinette.

Dovrei scrivere più spesso d’arte, non c’è solo Kate Middleton. 

IL MIGLIOR GELATO A MILANO

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DA TUFFARSI DI TESTA.

L’estate non è solo caviglie al cielo, canotte da muratore e fronte lucide come merluzzi scongelati, l’estate a Milano è anche quel tepore post doccia e post cena, quell’attimo a due in cui ci si guarda e si capiscono le cattive intenzioni.
No, non mi riferisco al sesso, anche perché incollati al lenzuolo sfiorandosi si percepiscono 64 gradi come all’ingresso degli Inferi, ma piuttosto alla routine del gelato.
Non c’è nulla di più bello che scendere di casa in espadrillas e un paio di miseri shorts senza inibizioni e camminare verso la propria fedelissima gelateria preferita, quella che si raggiunge in pochi minuti, quella che volete far conoscere a pochi e importanti amici.
Però Milano è così bella che val bene anche una pedalata in bicicletta alla ricerca del gelato più buono e meno universalmente noto della città, perché basta con la grande distribuzione e basta con le gelaterie in cui tutti fanno coda e commento.
Ecco la mia top 3 delle gelaterie che ogni anno mi vedono entrare felice e uscire ancora più felice:

3 – GELATERIA GARDEN SOLARI: Via Montevideo 25
Scoperta per puro caso mi è subito piaciuta perché tutto l’arredamento è rosa cipria e ci sono delle pareti realizzate con mosaico a specchio e sembra di stare in una disco-ball o in una di quelle sale da ballo degli anni ’70. Le creme sono eccezionali, anche se appena entri urli FRAGOLAAAAAA spinto dall’entusiasmo di un rosa accecante. Da mangiare rigorosamente su una panchina del “Parco Solari”, tra virgolette perché ormai sventrato dai lavori della metropolitana, più che parco aiuola.

2 – MASSIMO DEL GELATO: Piazza Risorgimento, angolo Via Pisacane
Un po’ di massa, un po’ di nicchia perché è una zona per cui il classico milanese o ci vive o non ci capita mai. Mi piace per l’atmosfera elegante, le cornice con le damine settecentesche riadattate con il cono in mano e la gentilezza delle ragazze che ci lavorano. Qui ho passato il mio ultimo primo appuntamento, direi quindi che è stata una buona scelta.

1 – GELATERIA UMBERTO: Piazza Cinque Giornate

Qui è il mio cuore, e lo consiglio perché è uno di quei posti in cui ti portano le Nonne, le prozie, un angolo di mondo che ha visto e non subito i tanti cambiamenti di Milano, la sua insegna ha più di 40 anni e dal 1930 è la gelateria del quartiere. Senza orpelli o fronzoli di design, rimane imbattibile per la crema.  La Gelateria Umberto per me conquista il podio anche per un semplice fatto, è uno di quei posti che rimpiangeremo quando non ci sarà più, uno di quei locali storici che non vogliamo rimpiangere quando al suo posto nascerà un Grom o un Cioccolati Italiani qualunque. E poi la squisitezza dei gusti e la gentilezza di chi ci lavora sono un valido motivo per farla diventare meta di quella famosa passeggiata di mezza estate, magari gustando il suo gelato su una panchina alla Rotonda della Besana. 


IL CAMICIONE FRESCO

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Senza fronzoli. 
Se vivi su Pinterest non hai caldo, non hai freddo, non hai il problema di lavare i bianchi con i bianchi e i colorati con i colorati perché è un mondo così artificiale che tutto si stira da sé, i capelli son sempre perfetti, la pelle levigata e le case al mare hanno quel sapore che non riuscite a percepire nemmeno sulle riviste più patinate del settore.

PERFETTO.

Ne sto abbastanza lontano, così come dalle solite idiozie sulle tendenze dell’estate che ogni anno ci snocciolano, e così lancio giornali dalla finestra all’ennesimo “Estate 2016: RIGHE” perché è da quando nell’Ottocento si è cominciato a usare il mare non solo per navigare ma anche per respirare l’aria della costa le righe sono state da subito associate a quelle cabine di tessute sulle spiagge in Francia.

Troppo Pinterest per i miei gusti ma rende bene l'idea. 
Personalmente non ho bisogno di sentirmi dire da una rivista di “moda” che non mi conosce, che non sa come passerò le vacanze e soprattutto dove, a dirmi come è meglio vestirsi.
Se ogni autunno inverno è un po’ caccia al cappotto tra moda e gusto personale, d’estate io mi vesto allo stesso modo ormai da quasi un decennio, appena ho capito cosa mi stava bene e cosa poteva riflettere il mio stile. Qualcosa che addosso a me ha un senso nonostante possa sembrare noioso e banale.


poi ci sono io AHAHAHAHAHAHAH.

Nel 2009 tra Ischia, Capri, Roma e ovviamente Vallombrosa ho coniato il termine “Camicione fresco” che in poco tempo divenne la chiave di lettura di tutte le mie estati. Una camicia disimpegnata lasciata larga, anche un po’ lisa, con il collo alla coreana o tagliata a vivo che sia a righe o a tinta unita nei colori pastello azzurro, rosa, verde mela.
Tutto è nato da quelle camicie di Bises tessuti che erano del Nonno Luciano che mi stavano larghe ma che volevo usare ugualmente, così ho iniziato ad andarci in spiaggia al mare con il 

Camicione fresco 19 euro da Zara comprato a Strasbourg nel maggio 2010. 
Panama e i sandali in cuoio presi nel mio negozietto preferito di Otranto e che ancora oggi dal 2008 fanno il loro dovere.

Camicione fresco, che tu sia a Saint Tropez o sbattuto su una spiaggia di sassi sul Ticino. 

Paglietta = estate 

VESTITI VS MOBILI

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Sono nel bel mezzo di una crisi di rinnovamento, come mai avute prima. Tra l’annoiato del vecchio e lo spaventato del nuovo, in particolare in questi due ambiti che fanno di me una persona insicura e tendente alla paranoia: vestiti e casa.
I vestiti occupavano gran parte delle mie attenzioni ma in questo periodo apro l’armadio e vorrei gettare tutto, faccio giri e rigiri per negozi e mi piace ancora meno tutto quello che vedo, non so più chi sono e non so più cosa mettere nel vero senso della parola.
Vivo di magliette bianche, pantaloni da 1 euro comprati nei mercatini 8 anni fa e ho addirittura provato un grande entusiasmo per una maglia a 4 euro bianca della Nike che non volevo nemmeno quando avevo 11 anni e se non indossavi Nike eri uno sfigato, un po’ come adesso solo se lo pronunci “NAIKI”.

GIURO CHE LO FARO'.

Avril Lavigne si è impossessata del mio corpo.

Tutto quello che appare diverso da me è perché l’ho irrimediabilmente rubato dal guardaroba di biscottino nei cui occhi leggo una gelosia e un fastidio che prima o poi davvero mi abbandona all’autogrill.
Vorrei davvero comprare qualcosa per me, ma quello che mi piace o sono delle scarpe rosa, o sono pigiami in seta con cui non avrei problemi a presentarmi innanzi alla società tutta, oppure sto quasi per andare alla casa e una maligna vocina mi dice bisbigliando “Potrebbe essere qualcosa di utile per la casa”.
Ecco qual è il problema.

Meraviglioso, incredibile, un traguardo che pensavo irraggiungibile comprare casa, arredare casa e veder prender forma a quella che sarà la tua prima casa, sono grato il mondo intero, MA, e c’è sempre un ma, ogni cellula del mio corpo è così concentrata su quello che mi sto trascurando.

Un colore che amo alla follia, su Dalani.


Questo per il bagno, troppo carino: DALANI


Piccolo particolare, non ho nemmeno il bagno, Dalani

Bello quel maglione diventa POTREBBE ESSERE UN RUBINETTO

Quanto mi piace quella camicia diventa CON QUEI SOLDI COMPRO LA PILETTA PER LO SCARICO DELLA DOCCIA

Vorrei quelle scarpe diventa VORREI MA NON POSSO PERCHE’ DEVO METTERE IL CONDIZIONATORE A CASA


L’alternativa è che per casa tu intenda il meraviglioso mondo dell’arredo per cui hai una serie di cornici ma non hai il pavimento, hai già una consolle per il corridoio ma fisicamente non hai ancora il corridoio, addirittura hai un delizioso orologio da parete per la cucina color tortora ma non hai nemmeno la cucina.

Vorrei vivere tutta la vita su questo divano. 

E mi vestirei sempre così.
O così.


Così per i vasi, i tappeti, i cuscini e i copriletto, hai tutto ma manca quel piccolo dettaglio: ovvero che la casa ancora smembrata a metà e potrebbero farci quei servizi d’alta moda che tanto piacciono negli anni 2000 con quei Valentino da 16 mila euro fotografati in mezzo a delle macerie o sulle scale antincendio a Scampia.
E’ inutile, in questo periodo se finisco sugli shop online di scarpe poi controllo le misure per il lavandino del bagno e ci perdo le ore, se sono su Asos poi inevitabilmente finisco su Dalani.

Sarò vestito male ma casa mia dovrà essere pazzesca. 

LA NUVOLA BIONDA

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La mia foto preferita.
Io lo so, lo so benissimo che quando muore qualcuno del mondo dello spettacolo c’è quello che subito urla al cielo il suo dissenso perché la persona in questione ha avuto una vita piena, felice e agiata, come se questi particolari rendessero giustificata la morte e soprattutto, rendessero ingiustificate le lacrime o il più superficiale dispiacere.
Ma io non nascondo che mi sia dispiaciuto per la scomparsa di Marta Marzotto venerdì 29 luglio, perché tante volte ho detto che un po’ ritrovavo la Nonna Giuliana in lei.
Nate nello stesso giorno, stesso anno, entrambe figlie di un ferroviere, hanno poi avuto una vita piena, agiata e serena grazie al matrimonio con un uomo che le ha introdotte al bel mondo degli anni ’50. Non sono storie da tutti i giorni, perché non tutti i giorni un uomo simbolo di una “dinastia” sposa la figlia di un ferroviere che spesso non ha avuto di che nutrirsi.

Quel bling sullo smeraldo dell'orecchino fa così 1982, mi fa impazzire.

Marta Marzotto noi la conosciamo per i velluti damascati e quei monili tintinnanti che ha sempre sfoggiato tra l’esoterico e il bohemiéne ma in diverse occasioni l’ho incrociata a qualche piccola festa e tutte le volte ho potuto constatare quale fosse la sua più bella delle sue caratteristiche: non far mancare un sorriso a nessuno.
E non lo dico per accompagnare un selfie con lei o scrivere “R.I.P. Marta”, non è una banalità che in un mondo in cui basta poco per piantarsi stabilmente su un piedistallo e sentirsi Rock star capricciose con il mondo in mano, ci sia ancora qualcuno che regala sorrisi e scambi quattro parole con degli sconosciuti senza arrancare presunzioni.
Marta Marzotto, Nonna di Beatrice Borromeo, con Fernanda Casiraghi, Nonna di Pierre al matrimonio sul Lago Luglio 2015.

Marta Marzotto non ha salvato il mondo, lo so bene, però un po’ ci mancherà.
Ve la immaginate la prima della Scala senza di lei che era la prima a essere fotografata e la prima a farci vincere il toto-colore del visone? O ve lo immaginate l’ennesimo matrimonio delle sorelle Borromeo senza lei che prenda a braccetto la Nonna-consuocera e insieme se la ridono alla faccia di altre blasonate che vorrebbero ma il botox ormai ha pietrificato il tutto?
In tante interviste le sottolineano che è arrivata dal casello al castello, da mondina a mondana, quasi facendogliene una colpa, come se migliorare la propria vita in favore di un amore o di un progetto futuro fosse eticamente sbagliato.


SOLO LEI IN ARANCIONE, SOLO LEI.

Si è attorniata non solo di indiamantate milanesi ma di artisti, letterati, è diventata musa e amante di Renato Guttuso e se il mondo della moda piange la sua scomparsa è perché oltre ad essere comunemente definita “Icona”, (termine che non sopporto) ha dimostrato quanto conti una sola cosa: essere se stessi.
Che tu sia contessa o mondina, contadina o imperatrice, se hai spirito e personalità parti già su un gradino più in alto e come diceva sempre lei “Ho volato, perché devo camminare!”.


Ciao Marta, sei stata pazzesca! 

Beatrice Borromeo dietro gli occhiali scuri al funerale dell'amata Nonna, Marta Marzotto.

DONNE CELEBRI

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Donne celebri. 
Come segnalibro Madame Victorie, la figlia del Re Sole. 

Ricordo come fossi ieri la noia e il far della sera di quei miei 18 anni a Vallombrosa, su e giù tra Firenze per scoprire l’arte e la cultura di una città che ho sempre avuto vicino in estate ma che ancora non avevo visitato.
Ero con la Nonna rimasta vedova da poco e che in quell’estate corteggiatissima riceveva addirittura dichiarazioni d’amore e sms, come nemmeno la più desiderata delle mie compagne di liceo tra perizomi portati alti e jeans a vita molto bassa.
Quelle interminabili sere non avevo da leggere e un giorno mi sono imbattuto in uno scaffale di libri che appartenevano a quella casa un po’ come i divani fiorati e il servizio inglese con i castelli settecenteschi. Così d’istinto ho iniziato “Paolina Bonaparte”, la biografia scritta da Antonio Spinosa.

Paolina Bonaparte, la celebre scultura del Canova. 
Maria Teresa d'Austria, la leonessa degli Asburgo.

Libro divorato, mangiato, letteralmente ingurgitato e poi rubato (con un po’ di rimorso) per custodirlo gelosamente. Lo scrittore oltre a rendere scorrevole una lettura che per altri può essere interessante come le istruzioni di una lavatrice, ti fa catapultare dentro un’epoca non tua e quasi ti sembra di percepire lo scalpitio dei cavalli, il fruscio della seta degli abiti in stile Impero con la vita alta e le acconciature un po’ greche delle dame più charmant.
Indimenticabile la scena in cui Paolina nuda di fronte al Canova che l’avrebbe resa immortale in un marmo che la fa sembrare viva, pensava di essere irresistibile anche per il maestro della scultura ottocentesca e invece lui, professionale e attento, disse “Prego, si sistemi sulla chaise longue”, così l’altezzosa sorella di Napoleone che un po’ sessuomane doveva sempre far cadere al suolo gli uomini che incontrava come foglie al vento, ci rimase così male che sparse la voce che al Canova non interessavano affatto le grazie femminili.


E’ un’altra eredità della Nonna, la passione per le biografie storiche.
Così da Paolina in poi mi sono trovato notti e notti a tu per tu con la vita di Elisabetta I, la Regina Vittoria, Marie Antoinette, Madame Pompadour, il Re Sole, Cristina di Belgioioso, Sissi, Maria Josè e Mafalda di Savoia.
Più donne che uomini, per il semplice motivo che apparentemente svolgevano una vita grama fatta di gravidanze e nascite reali ma la storia ci insegna che davvero sono le donne ad aver tante volte governato e cambiato il mondo nei loro regni, lasciando pensare agli uomini che fosse esclusivamente genere maschile il potere.
Stilare una classifica delle mie preferite è molto difficile ma sento di consigliarvi alcune di queste vite:


1)      La zarina Alessandra, quanto piangere.
2)     La Contessa di Castiglione, avrei voluto essere lei (fino a quando non è diventata grassa, pelata e si è rinchiusa senza specchi nel suo palazzo di Place Vendome).
3)     La Principessa Cristina di Belgioioso, eroina del Risorgimento dimenticata.
4)     Eva e Claretta, le amanti di Hiltler e Mussolini,
5)     La Marchesa Casati, nessuna si è divertita quanto lei.
6)     Maria Sofia di Borbone, sorella di Sissi e ultima Regina di Napoli con un destino simile a quello di Maria Josè, testimone di un’Italia in grande cambiamento.
7)     Lucrezia Borgia, perché è giusto far luce su un personaggio reso maledetto.
8)     Elisabetta d’Austria, e chi se no.
9)     Maria Teresa d’Austria, la voce narrante del destino di Marie Antoinette.
10)  Cleopatra, perché il fascino del Grande Egitto è incredibile ricostruito in un libro storico.

Cristina di Belgioioso ritratta da Francesco Hayez. 
La Zarina Alexandra, moglie di Nicola II Romanov, l'ultimo zar di Russia.
La Contessa di Castiglione, Virginia Oldoini, cugina di Camillo Benso di Cavour. 

Ma come tutti i personaggi la storia si fa interessante grazie alla bravura degli scrittori, e tra l’Olimpo degli Oscar Storia di Mondadori possiamo annoverare: Arrigo Petacco, Edgarda Ferri, Carolly Erickson, Antonia Fraser, Antonio Spinosa.
Ho scoperto da poco grazie alla mia tessera della biblioteca l’edizione degli anni ’70 “Donne celebri”, una collana di biografie di donne che hanno fatto o interessato la storia, ora sto leggendo “L’imperatrice Eugenia”, la moglie di Napoleone III, l’ultima testimone coronata di un mondo ormai scomparso.


Maria Sofia di Borbone, sorella di Sissi e ultima regina di Napoli. 

Alcune sono già citate nel mio elenco, altre invece più misteriose, come la Monaca di Monza, di cui voglio trovare al più presto il volume. Le copertine poi sono qualcosa di stupendo e sì, ho trovato un nuovo scopo nella vita: collezionare l’intera edizione con i suoi 27 volumi. 


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