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Channel: Pezzenti con il Papillon
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BISES TRAVEL: L'ISOLA DI PAROS

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LAGGERI
NOUSSA - PAROS 
Da qualche anno a questa parte il mio ideale di vacanza è una piccola isola da girare con i miei sandali pugliesi preferiti, il mare azzurro lontano da famiglie urlanti e bambini indemoniati che un attimo giocano a racchettoni e il momento dopo organizzano un mondiale di calcio in 4 metri quadri di spiaggia, niente ombrelloni e lettini ma solo un telo mare e un libro sottobraccio.
Se l’anno scorso ho scelto Hvar quest’anno con biscottino la nostra meta è stata fin da subito la Grecia, patria del meraviglioso mare blu, le casette bianche, il paradiso a portata di mano e di portafoglio.
Partenza da Milano Malpensa con Easy Jet a cui perdoniamo l’orrore dell’arancione compensando con i prezzi abbordabili (non sempre) e con due ore di volo arrivo a Santorini dove un valido ragazzetto locale si appropria del nostro bagaglio e al suono del suo urlo “PORT PORT PORT” ci fa cenno di seguirlo, questi transfert locali non saranno eleganti ma con un bel giro dell’isola ci ha portato all’imbarco del traghetto.
Con 22 euro 3 ore di traghetto (Compagnia Blue Star Ferrer) verso Paros, prima tappa del nostro viaggio.
Abbiamo scelto Paros perché è un’isola dai tratti quasi selvaggi, un’isola da scoprire perché tra le sue insenature, le sue calette lontane da occhi e sguardi indiscreti ci si può immergere in una atmosfera tra Laguna Blu e qualche puntata di Flipper.
Il nostro appartamentino era in un delizioso residence costituito da una serie di casette bianche e persiane blu con un giardino e una veranda meravigliosa sulla piscina dove veniva servita ogni mattina una colazione dolce/salata che era motivo di grande entusiasmo per ogni suono della sveglia.
Si chiama AROKARIA DREAMS e l’abbiamo trovato su Air B&B, consigliatissimo.
La padrona di casa, Anthie, ci ha accolto con un bicchiere di vino e una mappa di Paros dove con una X ci ha indicato i posti più belli, dobbiamo anche lei questa piccola guida Bises.


IL MARE?
Sfumature di blu e di azzurro assicurate, ma se siete amanti delle spiagge più raccolte e nascoste ve ne indico alcune che vi faranno lacrimare dall’emozione cavalcando un motirino-bolide, tipico mezzo di trasporto dell’isola.

-         LAGGERI: se non si conosce la stradina che sembra chiusa è difficile arrivarci ma con 5 minuti a piedi si raggiunge questa laguna blu con sabbia morbidissima, luogo che piace molto a naturisti e nudisti che come al solito trovano i posti più belli lontani dalle partite a racchettoni di tutte le frotte di turisti.

-         KALOGEROS: una lingua di spiaggia addossata a una scogliera che sembra impervia ma che regala un relax unico, grattando la roccia si ottiene l’argilla che mischiata all’acqua si amalgama per dei fanghi che rendono la pelle più bella e luminosa, altro che le maschere di Sephora.
Dal Faro a Nord Ovest di Paros. 


-   PISSO LIVADI: un piccolo porticciolo di pescatori, in quella zona ci sono delle spiaggette molto belle, poco frequentate e inoltre da qui partono le barche che fanno i tour intorno all’isola e con 50 euro per tutto il giorno vi fanno sostare nelle calette più belle inaccessibili da terra e vi fanno pure la grigliata a bordo per pranzo. Stupendo.

-     ANTIPAROS: un’isoletta selvaggia che dista a pochi minuti da Pounda, la base di partenza, e con un traghetto (2 euro a tratta per 2 persone + 1 motorino) si sbarca nel paesino e prendendo l’unica strada costiera si arriva a Soros Beach, un classico beach bar dove fare struscio e rimorchio. Da lì una stradina sterrata parte e costeggia la parte più a sud dell’isola dove minuscole calette in solitaria si tuffano verso il mare. Meraviglia.

-       KOLIMBITHRES: ve la indicheranno come la spiaggia più cool dell’isola ma il mio consiglio è di tenerla in considerazione solo per oltrepassarla fino alla fine della strada. Si arriva a un beach bar DETIS dove poi una stradina porta agli scogli e a una spiaggetta meravigliosa sulla punta più a est dell’isola, mentre dalla parte opposta di Detis ci sono degli scogli ideali per chi vuole lanciare il costume e giocare alla playa desnuda. Il tutto immerso nel parco naturale di Paros, un luogo incontaminato e molto suggestivo.
 
NETTUNO.
In generale la cosa più bella è girare in motorino, allungarsi per l’unica strada che gira intorno all’isola e non appena si vede una spiaggia deliziosa con un mare cristallo urlare “LIIIIIIII” e tuffarsi, il mare non delude mai e in qualsiasi parte regala un panorama stupendo.

DOVE MANGIARE?
La Grecia si sa è uno dei posti dove si mangia meglio, perché quel delizioso mix di mare terra ti fa sentire sempre con quel languorino e ti fa dire “HO FAMINA”.
Greek salad, salse e salsine, polpi e il souvlaki che io mangerei a chili senza fermarmi.
Ho provato i classici ristorantini di Paros a Noussa che è il paese più vivo e bello dell’isola dove la sera si riempie di gente ustionata e affamata che cerca un posto per sedersi e rifocillarsi.
Ci dicevano “Dovete prenotare” ma io con l’ansia degli orari anche in vacanza no, così andavamo all’avventura e ci sedevamo dove c’era posto.
I migliori? MITSI, ROMANTICA, MEAT BAR, posticini molto accoglienti ma semplici dove si mangia benissimo e si spende poco.
Un monito giunge infine: specialità greca il coniglio stufato con il guazzetto di cipolle ma se non avete una digestione perfetta potreste essere infrequentabili almeno per 24 ore.

È un’isola incredibile, ogni angolo, ogni paesaggio, ogni spiaggia racconta un pezzo di questo angolo di paradiso quasi incontaminato che oggi è meta di turismo da ogni parte del mondo ma che non è ancora di massa. Racconta anche quella realtà rurale che in Grecia è ancora patrimonio importante e che si può respirare al porto con i pescatori che ricuciono le reti o le signore che fanno l’uncinetto nei paesini.
Quella Grecia ti rimane dentro, e ovviamente sul tuo Instagram.

La bellezza.
Noussa.
Le grotte di Antiparos.
Il porticciolo 




ULTIMI TOCCHI DI STILE (?)

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In queste settimane di ritorno alla vita vera lontano da spiagge abbronzanti e sandali di cuoio, sono anche stato catapultato in quel periodo di ultimi dettagli per la casa nuova che a breve sarà completata strutturalmente.
Manca poco alle lacrime sul piatto doccia in mosaico e alla commozione di vedere quanto gli sforzi fatti in questi ultimi mesi per ristrutturare una casa che ricordo aveva le pareti arancioni e lilla non siano stati vani.

Quello che non è capisco è perché nel 2016 esistono i congedi matrimoniali, il periodo di malattia ma non qualche giorno di congedo per chi sta traslocando, arredando e ristrutturando casa (o nella peggiore delle ipotesi, come il sottoscritto, tutte e tre le cose).
Poi ancora adesso che ho quasi tutto sono ancora più confuso di quando ho iniziato a cercare come arredare questo 50 metri quadri, perché un giorno mi sento Marie Antoinette nel suo Petit Trianon avvolta da tapisserie damascate, velluto di seta e candelabri, il giorno dopo invece voglio tutto scandi e minimal come il giaciglio di un designer giapponese che veste canapa pressata e odia il superfluo.

Sto ripetendo a me stesso “Lorenzo, non vivi in Rue Saint Honoré nel 1905 e non hai un boudoir” perché spesso il mio eclettismo ha un così forte senso d’appartenenza che potrei finire a dire frasi del tipo “Mi ritiro nei miei appartamenti a sbrigare la corrispondenza”.
 Prima ancora delle finestre avevo una consolle, prima del pavimento una specchiera, ma ora che sono autorizzato a comprare quello che effettivamente serve come ultimo dettaglio per arredare una casa, è stato quasi il caos, e ho trovato tutto su Dalani con due colpi di click e qualche ora di sessione notturna sul sito.

Per esempio qual è l’ultima cosa che vorresti comprare per la casa ma che prima o poi ti tocca perché non puoi esserne sprovvisto? Oltre la cucina, per quanto mi riguarda.
Ve lo dico io: lo scopettino del water e il portarotolo della carta igienica. E’ stato difficilissimo e ho scelto con più facilità la casa da acquistare che lo scopettino, sono stato almeno 30 minuti a capire quale prendere senza farmi prendere dallo sconforto perché effettivamente non ti da’ grande soddisfazione riceverlo a casa sapendo il suo fine ultimo ma almeno è di design ed è molto carino.

PAZZESCO NO?



Se molto carino si può dire a uno scopettino del water.

Più facile è stato per questo delizioso tavolino dorato con il vetro, già mi vedo appoggiarci sopra la tazzina inglese dipinta per il tè delle cinque mentre aspetto la puntata di Chi l’ha visto, unico motivo al mondo per cui vale la pena pagare il canone della Rai.


Ovviamente mi sono dimenticato la lampadina. Scontatissima 


Così come questa lampada per cui sto studiando un piccolo angolo ton sur ton perché si abbina perfettamente perfino a un portafoto comprato in un mercatino testimonianza di un equilibrio armonico universalmente riconosciuto entro le mie quattro mura.

LO TROVI QUI

Cosa ci si mette? Fiori? chiavi? Cipria? QUI

Nulla da dire sull’utilissima scatola in vetro in cui metterò il boh e nemmeno sul bellissimo tappetino per il bagno blu navy che mi è costato almeno 20 minuti in contemplazione perché ancora una volta ho pensato alla perfetta armonia cromatica perfino delle maniglie delle porte ma non mi era venuto nemmeno il dubbio di aver bisogno di un pressoché indispensabile tappetino per il bagno.

Come fossi sempre al mare. 


Sull’impellente necessità invece della panchetta in velluto rosa non ci sono dubbi alcuni, l’acquisto definitivo. 

SIETE ANCORA IN TEMPO EH: QUI

QUANDO LA MODA FACEVA NOVANTA

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Nadja Auermann, Christy Turlington, Claudia Schiffer, Cindy Crawfor e Stephanie Seymour.
Quando lo scalpitio della settimana della moda milanese inizia noi “anziani” di città siamo tra l’indifferente e lo scocciato per il traffico, le corse matte e disperate, altrui, e il congestionamento di una cerchia dei bastioni che evitiamo sistematicamente.
Eppure qualche anno fa alla Vogue Fashion Night si andava e nello struscio ci si esibiva, eppure alle feste tentavamo di imbucarci elogiando amicizie di convenienza riscoperte casualmente davanti all’ingresso preso d’assalto, eppure la moda ci piaceva e ogni scusa era buona per viverla da vicino.

Adesso più spettatori diffidenti perché quel turbinio di annoiate della moda vestite sempre troppo invernali in estate ed estive in inverno, come i fanatici malvestiti con addosso la qualunque per attirare una smodata attenzione e finire su qualche shooting di chissà quale testata internazionale.
È un grande circo in cui ci si dimentica che lo spettacolo lo fanno i vestiti e non chi dovrebbe solo esser seduto ad ammirarli e soprattutto capirli.
Che poi ci sia poco da capire di una felpa in maglia oversize senza forma e senza perché, è indubbio.

ICONICHE.

Altro motivo per cui la moda di questi ultimi anni non mi entusiasma sono le modelle che sembrano non avere un forte carisma al di fuori di un post su Instagram, troppo osannate con i like, poco presenti nella vita di tutti i giorni.
Sarà che noi nati alla fine degli anni ’80 siamo cresciuti iniziando ad accarezzare l’augusto mondo della moda con icone di fascino del calibro di Claudia Schiffer che ha dato il nome a milioni di Barbie tra il 1992 e 1999 quando poi verso i primi 2000 è subentrata una certa Gisele.


1992 Claudia Schiffer per Chanel.

1991 Naomi in Versace per Elle America. 

Avevamo le campagne di Oliviero Toscani contro il razzismo, Claudia sfilava in rosa per Chanel, Noemi Campbell era ancora lontana dal lanciare telefonini contro assistenti stressate, Cindy Crawford non beveva San Pellegrino come una di noi, Elle Mcpherson non sapeva che avrebbe venduto l’anima al diavolo e Carla Bruni, beh Carla Bruni ancora non aveva scoperto che poteva fare barili di milioni bisbigliando a caso in francese due note con la chitarra come qualsiasi altro hippy sulla spiaggia attorno al falò.
Ed ecco perché rimpiango quegli anni.


Disarmante.

C’erano le Barbie di Benetton, Gianni Versace disegnava riunendo le cinque top model più famose di tutti i tempi in uno scatto solo e la bellezza era qualcosa di più autentico, più sano.
Nessuna Gigi Hadid di cui ancora oggi ignoro quasi tutto, nessuna Bella Hadid che mi sta antipatica per il nome e quelle false fascinose di Kim Kardashian e compagnia, perché troppo facile nel 2016 con filtri, social e trucchi degni del set di “Star Wars”.

Ridateci il 1992. 

STORIA.

Barbie Benetton. 

NOI GAZZE LADRE

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Dai maschi di casa Bises ho preso la stempiatura, l’occhio chiaro e quel gusto antico nel vestire che ci fa apparire più vecchi che classici, mentre dalla linea femminile sicuramente la passione per tutto ciò che sbrilluccica e che è associabile al più bel concetto di GIOIELLO.
La mia bisnonna Gilda era una vera gazza ladra attratta dal diamante bianco più intramontabile, lei che durante la guerra dovette sotterrare in giardini i suoi gioielli di Bulgari, motivo più che valido per sopravvivere tenacemente alle deportazioni degli ebrei del 1943.

Ecco come superare la mia fobia dei serpenti: BVLGARI 

TEMPESHTATO PROPRIO

Quando ancora il gioiello era importante e portato con quella grazia che sapeva farti distinguere l’occasione giusto per indossarlo. Quando i collier erano collier e non invisibili fili d’oro, quando ancora le signore dopo le 20 portavano le tiare di brillanti a un cocktail con il padrone di casa che poteva spegnere le luci perché ce n’era abbastanza. Quando le parures di pietre preziose si tramandavano di Mamma- figlia o Nonna- nipote con la promessa di fare altrettanto con le future generazioni.
Filodellavita Luce: www.filodellavita.com

Quando su Snapchat abbiamo parlato di gioielli la maggior parte delle ragazze ha mostrato che si indossa sempre sempre sempre qualcosa di poco vistoso ma con un grande legame affettivo. Che sia un anellino da bancarella o un orecchino liberty della bisnonna, l’importante è quel valore che non è quantificabile con gli zeri.
L’argento cesellato in motivi floreali dei primi Novecento, un piccolo zaffiro o le intramontabili perle che si sconsiglia prima dei 40 ma che in realtà sono un tocco senza età. 
Portiamo poco ma bello che è un po’ l’idea degli ultimi anni.


Un classico Cartier

Poi però sfogliamo i giornali di moda e niente, ci incantiamo su un bracciale a serpente con 120 diamanti bianchi montati su oro giallo che a volte fa zingara ma in questo caso me lo metterei subito o su uno zaffiro rosa fancy. Anche io passo dal minimal “No niente oro dai i gioielli fanno parvenue” a “Oddio quello smeraldo 4 carati a forma di delfino lo desidero subito”. Da Madre Teresa a Elizabeth Taylor è un attimo.

Tutti noi amanti del gioiello poi ancora rimpiangiamo i Romanov con le loro tiare Fabergé e non ci siamo più ripresi da quando Rose ha gettato il cuore dell’Oceano dalla nave.

INGRATA. 

Santa Elizabeth Taylor, proteggici tu.
Una tiara di diamanti e perle per la zarina Alexandra, IL MIO SOGNO.
MALEDETTA ROSE.
Celine Dion indossa la versione creata per le riprese, ahimé sono solo zirconi. 

VACANZE SULLA NEVE

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Io e biscottino che arriviamo sul Tonale con Gbreak.

Se guardo gli album di quando ero bambino durante le vacanze di Natale sulla neve avevo sempre solo due espressioni: disperazione e totale disperazione.
In particolare è storia quella in cui io scendo a spazzaneve durante una gara di fine corso di sci, avrò avuto 5 anni, con la pettorina sulla maxi tuta rossa e un broncio che sembra dire “NON FA PER ME IO VOGLIO IL MARE”.

Verso i 16 anni quando potevo millantare capelli ricci e apparecchio dagli elastici multicolor, ho rimesso gli sci e con un savoir faire più sobrio anche nei colori delle tute, delle sciarpe e dei cappellini e scoprì che non ero malaccio e ci sapevo fare sulla neve.
Non è che non mi piaccia sciare ma lo trovo scomodo, troppa roba per me che sono abituato a nuotare con almeno il costume la cuffia e gli occhialini, niente a che vedere con: tuta da sci, calzamaglia, calzini, canottiera della salute, maglia termica, pile imbottito, tuta da sci, guanti, sciarpa, cappello, occhiali, casco, bastoni e scarponi. Un incubo.

Per i goffi come me poi è praticamente impossibile salire sulle piste e sullo skilift senza perdere guanti, cappello e dignità tentando di non catapultarsi a picco lungo le discese.
Il karma però ha voluto che biscottino fosse il più appassionato di sci che potessi mai incontrare e ancora mi rinfaccia che l’anno scorso non abbia potuto nemmeno finire congelato su una pista nera con me che urlo “IO TORNO A PIEDI HAI CAPITO, IO TORNO A PIEDI”.

Quest’anno invece ho deciso che riaprirò l’armadio e farò prendere aria alla mia chicchissima tuta da sci color mattone (probabile che necessiti di aria fresca causa naftalina, un po’ visone della Nonna la settimana prima de La Scala) e a convincermi è stato il gruppo di GBreak che da anni organizza vacanze gay sulla neve e non solo.
Così ho iscritto me e Luca, andremo dall’8 all’11 di Dicembre sul Tonale con la premessa che ci sarà quella massiccia dose di:
-        -  Maglioni natalizi
-        - Cioccolate calde a tutte le ore del giorno e della notte
-         - SPA come se fosse l’ultima volta che vediamo dell’acqua calda
-         - Serate danzanti
-         - Colbacchi di visone

Non vedo l’ora di partire e sono molto curioso di scoprire quanto un gruppo di ragazze e ragazzi gay si possano divertire in un hotel di montagna completamente riservata e con uno staff animazione con feste a tema. Sarà una versione davvero SHINING.
Trovate tutte le info sul sito: https://www.gbreak.com/

VI ASPETTO.

IL NATALE A MILANO

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CAPITE.
La cosa più bella di Milano sotto Natale è Milano, un po’ come quel Natale del 1994 quando in una grandiosa piazza Duomo avevano allestito un labirinto di folletti, elfi e io con gli occhi da bambino ero rimasto così estasiato che ancora oggi ricordo la felice atmosfera di quei momenti.
A quasi 30 anni suonati non è più la spasmodica ansia nell’aspettare Babbo Natale a rendere questo giorno felice e spensierato, quanto l’atmosfera generale, che potrà essere banale ma quanto è vero che tutte le città del mondo, persino quelle potenzialmente brutte, sono un po’ più belle durante il periodo di Natale.
Periodo di Natale che, non transigo, è solo quello che intercorre dal 7 dicembre (Grazie di esistere Sant’Ambroeus) al 6 gennaio, prima e dopo le luci di Natale, gli addobbi, i presepini e gli striduli di Mariah Carey sono fastidiosi e fuori luogo.
Persino Melegnano, che sfido diventare patrimonio Unesco, nell’hinterland milanese, ha la sua sfavillante casa di Babbo Natale che ogni anno diventa punto di raccolta per chi vorrebbe che la Lapponia fosse una fermata del metrò.
L’altro rovescio della medaglia è che non è facile vivere a Milano durante il periodo di Natale perché è una città che già normalmente ha una frenesia stancante e in questo periodo è come un vortice che non si ferma dove la gente corre corre e corre senza capire quale sia la meta.
Taxi inesistenti, ristoranti colmi per settimane, negozi inavvicinabili, mezzi pubblici ingombri di persone con mille sacchetti per mano, pasticcerie che diventano campi di battaglia, supermercati antri dell’inferno, gente che si strattona per il vitello tonnato di Peck o il panettone di Cova.
Grazie alla mia umile esperienza ho imparato negli anni che Milano a Natale vive di punti fermi che anno dopo anno si fanno spazio diventando così delle vere e proprie tradizioni:

Il concerto dell’avvento:
Ogni giorno dal 1 dicembre al 24 alle 18 in piazza Duomo, nel palazzo dalla parte del Museo del Novecento, viene aperta una finestra come fosse la casella del calendario dell’avvento e si esibisce dal vivo un musicista che suona sinfonie natalizie, l’atmosfera è incantata e per i più sensibili, fazzolettini a portata di mano.

L’arte per tutti:
Ogni anno il comune di Milano, dal 2010, regala ai milanesi un’opera d’arte che viene per l’occasione ospitata presso la sala di Palazzo Marino e visitabile gratuitamente per tutto il periodo natalizio. Dai più bei musei del mondo sono arrivati in città Raffaello, Tiziano, Rubens e quest’anno tocca a Piero della Francesca. E’ la più bella iniziativa che il comune abbia ideato per le feste di Natale, perché diventa una tradizione e non una corsa, le guide sono sempre ben informate e ti fanno avvicinare al mondo dell’opera con una semplicità che fa sentire tutti coinvolti. Difficile che nessuno esca da Palazzo Marino senza pensare “Dovremmo osservare di più le bellezze artistiche, a cominciare proprio dalla nostra città”. L’obiettivo è proprio questo, sensibilizzare tutti affinché quello che abbiamo intorno non sia dimenticato ma ammirato e preservato, d’altronde Milano non è solo il Duomo.

Il panettone:
La corsa al panetun è un must milanese, ognuno ha i suoi indirizzi preferiti perché chi lo fa con più uvette, chi lo fa più alto, più basso, più tozzo, più glassato, anche se la formula non cambia e gli indirizzi sono sempre quelli delle pasticcerie storiche:
Cova, Cucchi, Clivati, Sant’Ambroeus, Peck, San Gregorio e Gattullo.
E’ tutto molto soggettivo, come la scelta del profumo e della biancheria intima.

Le illuminazioni:
Le luci di Milano sono una delle attrattive più emozionanti della città a partire dall’albero in piazza Duomo che ogni anno è una sorpresa, nonostante siamo passati da pacchettini Tiffany del 2010 (TROPPO 2010) a quelli di DHL passando per Pandora, può piacere o no ma sicuramente è bello vedere per tutto il periodo lo svettare di un abete addobbato che sfida l’ingresso in Galleria.
Le luci illuminano la Rinascente, che da sempre è il fulcro della frenesia da shopping natalizio, in quel palazzo ad arco di stampo fascista le lucine a gocce scendono e scandiscono i passi di una città che più in passeggiata è in corsa 7 km/h.
Ma è la galleria il polmone milanese di tutti i nostri Natali, il salotto più bello del mondo, lo struscio più elegante, quel varco temporale che ti fa sentire in un film d’epoca. Sfido chiunque a non provare un minimo di orgoglio nel vivere a Milano e sapere che a due passi da casa hai a disposizione un luogo pubblico così immenso, così bello, così coinvolgente.
La grande cupola è tutta illuminata, le luci della galleria da poco restaurata in modo incredibile creano un’atmosfera sublime e accogliente, sembra di entrare in una casa, anche se nessuno si augura di avere in casa una vagonata di giapponesi che si arrampicano uno sull’altro per scattare foto e farsi i selfie.
E ogni anno scatta la polemica “Mi hai rubato la foto in Galleria, è uguale alla mia”, SENTI. L’albero è quello, la galleria è quella, la postazione tattica per far uscire tutto simmetrico su Instagram è quella e non esiste nessun primato, quindi torniamo al detto “A Natale siamo tutti più buoni” e via con una fetta di panettone.

Questo post per dirvi che a Milano non avremo il mare, non avremo i mercatini di Natale più celebri al mondo, non abbiamo nemmeno più la neve o la famosa scighera (la nebbia) ma se vi capita di trascorrere qui il Natale è impossibile che non ve lo portiate sempre con voi nel cuore.


Buon Natale a tutti e soprattutto a te, mia amata Milano. 

PARTENDO A EST E TORNANDO A OVEST

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Lago di Bled, Slovenia

Pasticceria Demel, Vienna 

Monumento funebre a Maria Cristina D'Austria 

Prendete 8 amici, un furgoncino e sparatelo in giro per l’Europa con un tour che più che un viaggio pareva un pellegrinaggio, o una maratona. Il viaggio di Capodanno è stato quello che si può definire un avventuroso slalom tra paesi vicino ma culturalmente lontani, una scoperta continua di città, paesaggi e scorci che da tempo volevo visitare e così via, siamo partiti organizzando tutto in metà pomeriggio, senza quasi credere nelle nostre capacità, come un gioco che si è rivelata una deliziosa realtà.
Siamo partiti verso Est.
Tornando a Ovest.
Questa piccola guida a voi, chissà che possa servirvi per lasciarvi ispirare per il prossimo viaggio.

Tappa 1: partendo da Milano con sosta in un autogrill da dimenticare siamo arrivati in Slovenia, in un delizioso paesino dall’aria di montagna, Radovljica, dove sulla piazza principale c’è questa antica pensione Lectar del 1822 che offre un soggiorno romantico e all’insegna della tranquillità. Ha anche un ristorantino al suo interno che fa delle zuppe squisite e l’arredo da chalet di montagna vi farà sentire a Gstaad, cuori di pan di zenzero inclusi.
La Slovenia è anche famosa per le sue terme, così un meritato idromassaggio calde alle terme del Golf Hotel di Bled sono un toccasana di fine dicembre. Bled è meravigliosa e vale una visita di giorno quando il lago domina il paesaggio e sul monte roccioso il castello di Grad appare incantato.


Tappa 2: Vienna, la città del walzer ok ma soprattutto di Sissi. Avevo già scritto in passato una piccola guida di Vienna sulle orme di Elisabetta che da sempre è un personaggio che amo e di cui sono quasi leggermente ossessionato. Qui nella città simbolo del potere asburgico ho potuto però rivedere quella che per me è l’opera più bella e che non può mancare nella lista di chi ama la sofferenza dell’arte.
Il monumento funebre di Maria Cristina d’Austria, scolpito in marmo dal Canova, si trova nella chiesa degli Agostiniani, proprio dietro alla Hofburg e la cui cripta ospita tutti gli imperatori e le imperatrici della casa degli Asburgo, tra cui anche la leggendaria Sissi.
E’ un’opera così bella e struggente che fa quasi male.
E’ consuetudine visitare Vienna e fondarsi all’Hotel Sacher a fare la fila in mezzo ai classici turisti d’assalto, io però preferisco DEMEL, la storica pasticceria di fronte alla Hofburg che tra stucchi e specchi settecenteschi rappresenta a pieno la bellezza decadente di questa città che sembra ferma nel tempo. Carinissimo anche il “Tian bistrot”, per una merenda in un luogo unico e più moderno.

Malinconica Praga 
La casa della musica, Praga 
Il cimitero ebraico di Praga 

Tappa 3: Praga, passando per una breve sosta a Budejovice, un piccolo paesino ceco con una piazza molto carina e colorata che se siete fortunati si veste di bianco in 10 minuti sembrando così una bolla di neve di Natale.
Praga era una delle città d’Europa che più desideravo visitare, per il suo lato malinconico e per quell’atmosfera antica palpabile e meravigliosa. La piazza è stupenda, così come il macchinoso orologio astronomico con la ballata delle statue che lo compongono a ogni scoccar dell’ora, ma in assoluto la cosa più bella che abbia visto a Praga è stato il cimitero ebraico, unico nel suo genere. Una serie di tombe antiche tutte sovrapposte, senza fotografie perché così vuole la tradizione ebraica, senza ordine e senza controllo architettonico, uno spazio spontaneo che risulta quasi anacronistico di questi tempi. Meraviglioso e toccante.
Consigliato lì intorno il pranzo al “Kapital”, mentre per la merenda le torte di questo posticino impronunciabile sono deliziose, “Cukrkavalimonada”, le ragazze che ci lavorano poi sono così gentili che solo questo è un motivo per sedersi a sorseggiare una tazza di tè.

Tappa 4: lasciando la Repubblica Ceca verso la Germania passando tra le montagne del parco naturale della svizzera sassone per visitare il Bastei-Brucke, ovvero un ponte a fine turistico costruito sul finire del ‘700 in legno e poi in pietra intorno al 1824.
Questo ponte domina le alture circostanti che sono un patrimonio naturale molto bello e imponente, quasi magico, quasi una scenografia da cime tempestose, tra l’eroina ottocentesca e the Revenant, visto che al rientro verso il furgoncino ci siamo presi in pieno una tempesta di neve, fortunatamente nessun attacco di orsi bruni.


Basteibrucke 


Tappa 5: Lipsia, dormendo al Penta-Hotel, un albergo business dove la sera luci rosa ed enormi disco ball compaiono nella hall, sembra quasi che alla reception ci sia Madonna che balla Hung up con il body e i tacchetti di glitter.
Lipsia è una piccola città tedesca famosa per la clamorosa sconfitta di Napoleone a cui è stato dedicato un mausoleo che sicuro non gli fu lusinghiero.

Castello di Wartburg.

Tappa 6: Francoforte. Non so cosa scrivere, credo sia una delle città più brutte che abbia visto, fortunatamente era solo una meta di passaggio anche perché non avrei potuto sopportare a lungo il dolore di scoprire che non esiste la casa di Clara dove andava Heidi e dove viveva la signorina Rottermaier.
Consigliato invece il castello di Wartburg, a metà strada tra Lipsia e Francoforte, una roccaforte che domina la Turingia e che gode di uno spettacolo incredibile e di un freddo glaciale.

Tappa 7: Colmar. Vive la France. Quando si oltrepassa il Reno e si arriva in Francia è come mangiare un cioccolatino dopo una lunga dieta, io ho tirato un respiro di sollievo perché trovo i tedeschi musoni, insopportabili e maleducati, mentre i francesi mi fanno sentire a casa. L’Alsazia è un gioiello unico che tutti dovremmo visitare almeno una volta nella vita perché allestita come un presepe Colmar è al centro di quello che era lo stile alsaziano del 1400. Casette di legno colorate, un po’ Hansel e Gretel e la gioia della casa di marzapane, così. Canali e balconcini, pasticcerie e negozietti antichi, Colmar è la patria dell’Instagram.
Consiglio una merenda con te’ e mousse ai tre cioccolati da “Kamie”, mentre per mangiare tipico alsaziano in un ristorante che sembra una meravigliosa soffitta della Nonna allora c’è “Le petit Venice”, bellissimo.

Colmar, Alsazia. 

 
Tappa 8: Lione. Vive la France 2. Una delle città di questo tour che mi è piaciuto più di tutto il tour, una città che non mi aspettavo così accogliente e calda. Per certi versi, quelli più brutti, assomiglia un po’ ai degradati vicoli di Genova, per altri invece è maestosa ed elegantissima. Ci sono anche i ristorantini tipici, i negozietti con le insegne storiche, gli antiquari e le pasticcerie su cui sbavare con quelle vetrine da sogno.
Consiglio tantissimo “La limonade de Marinette”, un risto-bistrot dove si può bere una deliziosa cioccolata calda che UDITE UDITE viene fatta con il latte e il Nesquik, non potete capire le mie urla di gioia. Il bistrot è tutto arredato come fosse un alimentari fermo agli anni ’60 e accanto c’è anche il loro negozio con tutte delle raffinate idee regalo vintage. Un posto incredibile!
Per mangiare tipico lionese invece c’è un ristorante storico arredato in modo perfetto, si chiama “Le bouchon colette”, la tartare di carne e l’entrecote sono da leccarsi baffi e doppiomento.
Ah dimenticavo, a Lione ho dormito su una chiatta sul fiume Saona, affittano le camere che sono delle vere e proprie cabine sulle chiatte parcheggiate al lungofiume, esperienza unica e no, non si soffre perché non si muovono di mezzo centimetro tanto sono ancorate al fondo.
 
Lione
Di questi 4000 chilometri e passa ho amato tutto, dai paesaggi agli scorci cittadini, dalle montagne al lago, dalla neve al cielo terso viennese con il vento che sferza dal Nord, ho amato un po’ meno invece quei 57 euro per attraversare il passo del Frejus. GRRRRRRRR.
Che bello però tornare in Italia e riabbracciare il mio grande e unico amore, il bidet.

Vive la France
Lione.


ELSA MARTINELLI

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Internet è quel luogo dove brutti video diventano virali, dove imperversano quotidianamente mitomani e invasati di Mussolini con copertine slogan come fossimo nel 1936, dove genitori cercano di capire il linguaggio dei figli e dove i figli si imbarazzano dei contenuti condivisi dai genitori. Questo in superficie.
In profondità questo immenso patrimonio che possiamo avere tra le mani in qualsiasi istante delle nostre pigre e attive vite ci permette di arrivare dove i nostri genitori e i nostri nonni, o anche noi non considerati “millennials”, non arrivavano se non scavando in biblioteche e giornali.
Oggi qualcosa colpisce la tua attenzione e un secondo dopo puoi immergerti in quel minuscolo dettaglio per tirarne fuori una storia, un racconto, imparando tutto ciò che non sapevi a riguardo.





Così da una foto postata su Instagram di Elsa Martinelli in uno scintillante abito rosso Dior (Sì, Dior, avrei detto Valentino, ecco che si impara sempre) mi sono chiesto perché questo nome mi fosse quasi sconosciuto e in una sera gelida di Gennaio mi sono tuffato in quel suo mondo che inizia con una carriera da modella per lo stilista che la scoprì, Roberto Capucci, fino ad arrivare alla sfolgorante Hollywood, tra le prime italiane che fecero successo anche oltreoceano.




Classe 1935, di una bellezza da mozzare il fiato, quasi una parigina spettinata, di quelle che con un dolcevita e un jeans possono calcare una defilé ma fanno la spesa. Vestita come tutte voi vorreste vestirsi oggi nel 2017 perché ciò che non cambia non sono i tessuti ma le intenzioni. Un po’ Audrey Hepburn nei colori ma con quella sfacciataggine alla Brigitte Bardot, sensuale quanto basta e raffinata nello spontaneo.


E come le grandi attrici italiane Elsa è piano piano scomparsa dalle scene per dedicarsi alla sua vita, invecchiando adagio e con stile aiutata da una madre natura generosa e gentile, ma sempre con una biografia in uscita “Sono come sono. Dalla dolce vita e ritorno” che, ovviamente, sarà presto sul mio comodino. 





Al matrimonio di Valeria Marini, BACI STELLARI. 






IL VIVER CIVILE SUI MEZZI PUBBLICI, E' POSSIBILE?

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IO TUTTI I GIORNI. 
La realtà è che tutti noi prima o poi, senza accorgercene, volontariamente o no siamo almeno una volta rientrati nella categoria “maleducati da mezzi pubblici” perché per distrazione o fretta siamo come soldati verso l’obiettivo ma è bene fare attenzione e seguire poche regole che permettono agli altri di non avere istinti omicidi nei nostri confronti.
Queste righe sono il risultato di anni e anni avanti e indietro sui mezzi pubblici milanesi, un percorso fatto di tram, autobus, metropolitana, bike sharing e chi ne ha più ne metta, in questo turbinio di voracità, fretta e frenesia.

Non sei davvero residente a Milano se in qualsiasi situazione anche nella più rilassante delle tue domeniche di primavera a spasso per la città, non corri, o meglio, non cammini a passo svelto, il cosiddetto “passo alla milanese” che si aggira intorno ai 7 chilometri orari.
Non importa se sei in anticipo, in ritardo, se non hai una meta prestabilita perché ti stai godendo il tuo meritato tempo libero, tu devi correre e subito ti devi innervosire quando davanti a te qualcuno tergiversa sulla direzione che deve prendere o se occupa lentamente tutto il marciapiede.
Quattro amiche camminano in corso Buenos Aires chiacchierando una accanto all’altra? Ma chi si credono, Carrie Samantha Miranda e Charlotte? Vuoi superare la coppia di anziani lei in visone e lui in Loden ma devi calcolare esattamente il passo per evitare di essere scaraventato nel cestino dell’immondizia o con la faccia sul lampione? Questi sono i nostri problemi.

Entrando in metropolitana per esempio la prima cosa da fare per evitare di essere linciati da chi certamente non sta andando a cogliere margheritine, è preparare il biglietto o l’abbonamento perché è fastidioso che la folla si accalchi ai tornelli per sfrecciare l’abbonamento magnetico ma ci sia qualcuno al posto di comando che ravana nella borsa senza spostarsi e far passare chi è già pronto. Il vero milanese, ricordiamolo, è quello che già al primo gradino ha in mano l’abbonamento e conosce l’esatta inclinazione del tornello che si spinge con un delicato colpo di coscia, magia.
Sulle scale mobili la scritta “Tenere la destra” non è un nostalgico pensiero agli anni d’oro di Forza Italia e Berlusconi ma un accorgimento civile per permettere alle persone atletiche di lanciarsi giù correndo all’impazzata nella parte sinistra della scala mobile, usata come pista di decollo con quell’ultimo tonfo TOOON prima di prendere il volo verso il vagone del metrò.


Sulla banchina, inutile dirlo, si sta dietro la linea gialla e durante le ore di punta è proprio sulla banchina che zaini e borse si prendono in mano perché per chi lo porta è fastidioso farselo sfiorare bruscamente da chi passa dietro e soprattutto lo zaino e le borse stanno sempre in mezzo.
Quando arriva il proprio mezzo di trasporto e si scatena la baraonda è bene ricordare queste poche semplici e snelle regole che potrebbero non far ricredere il povero Darwin:
1-      LASCIAR SCENDERE PRIMA DI SALIRE, regola così ancestrale che io credo fosse scolpita con le unghie e con i denti anche dagli australopitechi nelle grotte ma a quanto pare non è da tutti seguirla visto che certe mattine sembra di stare a una partita di rugby.
2-     NON SPINGERE, NON SPINTONARE, NON PIAZZARSI DAVANTI ALLE PORTE, perché già lo spazio non permette capriole e balletti, se poi tu e la tua valigia di 47 chili occupate l’ingresso e l’uscita come i cani davanti a un cancello in attesa del padrone, beh, maleducato forse è il più tenero dei complimenti.
3-     NON SI PARLA AL TELEFONO. E qui apriamo un capitolo delicato ma necessario perché sono arrivato a un punto tale per cui con lo sguardo freddo e atto alla violenza cerco di far capire a chi mi è accanto che parlare al telefono sui mezzi pubblici è sinonimo di grandissima maleducazione e cafoneria. Stipati al mattino, destinati a 8 e più ore di ufficio, perché dobbiamo pure sorbirci le urlanti telefonate di persone che nemmeno conosciamo che raccontano tutto al loro interlocutore? Chi racconta, lo giuro, della colonscopia appena fatta, chi pianifica la settimana dei figli tra danza, calzetto, nuoto e catechismo, chi parla ossessivamente con la mamma organizzando il matrimonio, chi confessa una crisi sentimentale senza che nessuno dica mai un sonoro “NON CE NE FREGA NULLA”. Vorrei tornare a qualche anno fa quando i ripetitori non esistevano ed eravamo obbligati a dire “Ti chiamo quando esco dalla metro” per la quiete del mondo. Leggetevi un bel libro, imparate a memoria le fermate della rossa, giocate a chi ha le scarpe più brutte del vagone, ma non urlate al telefono, siete dei cafoni.
4-     ALLE PERSONE ANZIANE, ALLE DONNE INCINTA E AI DISABILI si cede il posto a sedere, senza se e senza ma. A ricambiarvi saranno i sorrisi di ringraziamento o addirittura le carezze sulla guancia di un’adorabile sciura di Brera che scende a Lanza.
5-     LEVARSI DI TORNO: quando si è seduti e ci si alza per avvicinarsi all’uscita e sgomberare finalmente lo spazio vitale che occupi, perché rimanere di fronte al posto a sedere senza spostarsi facendo accomodare qualcuno che sbava non appena aveva capito che scenderai alla prossima?
6-     URTANDO E SGOMITANDO, se accade si chiede scusa perché non siamo carne da macello e non ti ha cresciuto un piccione di Piazza Duomo.
7-     ACCESSO LIBERO, perché può capitare che non si debba obliterare il biglietto o l’abbonamento anche in uscita, così appare quella sensazionale scritta che dice “Accesso libero” e di fronte a questa si sparge il panico milanese reazionario. Gente che si ostina a passare sopra la parte magnetica dell’abbonamento senza sentire il beep mentre il molle tornello rimane lì in attesa del fatidico colpo di coscia.
8-    LA LUCE.


Uscire dalla metropolitana è come rinascere ma queste regole di vita e soprattutto di quiete vivere valgono sottoterra come in superficie, su un tram, su un autobus, in un supermercato, in piscina e anche incredibilmente surreale, ANCHE IN POSTA. 

RITORNO ALLE ORIGINI

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Luisa Beccaria 
Missoni 
Io di moda non so nulla, nel senso che non mi sento di appartenere a quella eterogenea categoria di tuttologi che sanno descrivere con minuzia da Tg2 costume e società le collezioni pret à porter o l’haute couture inneggiando a parole come “Una favola”, “Una donna contemporanea che veste la modernità quella di…” oppure frasoni alla “Una giungla di colori cool ispirati all’Asia gli abiti di…” dove aggettivi e sinonimi vengono utilizzati per ingigantire un concetto che forse c’è ma non è palpabile.
Vivendo a Milano la moda è una conditio sine qua non perché a meno che tu non sia chiuso dentro una scatola di cartone con paraocchi e meta da raggiungere con sguardo basso, la moda la si respira e spesso non la si tollera.

Tutto questo scalpitio riempie i luoghi del nostro quotidiano, addirittura uffici, teatri, cinema, palazzi storici, mostre e musei, fanno a gara per la location più giusta, l’installazione più luminosa e la madrina più fotografata. La settimana della moda combatte contro la nostra pigrizia, ci incuriosisce e spesso ci giudica perché non tutti sono invitati e non tutti sono parte di questo mondo scintillante.
Non conosco a memoria il calendario sfilate, capisco che sfila Fendi quando il 14 ci mette 45 minuti a fare due fermate, capisco che è Gucci ad invitare migliaia di persone perché sono in bicicletta contromano e la carta igienica appena comprata sottobraccio e non riesco a tornare a casa con facilità.
Quindi sì, Milano è davvero moda nonostante in tanti per snobismo o indifferenza verso quello che succede attorno alle loro cornee dicano il contrario e sbuffano tra modelle, party esclusivi di cui non ricevono l’invito e greggi di fashion influencers che tentano il suicidio sui binari dei tram.


Simonetta Ravizza 


Alberta Ferretti 
Sono un classicone io e sono tanto radicato nel gusto dell’antico che attenzione, spesso, è un grande difetto che ammetto di avere. Questa radicalizzazione non mi permette di vedere il nuovo perché credo che il “vecchio” sia sempre meglio e che la più splendente età della moda sia ormai passata e tramontata.
Ok, si dice che Valentino Garavani sia l’ultimo imperatore, che Yves Saint Laurent abbia vestito una donna che non tornerà mai più e che Dior abbia fatto versare lacrime per la bellezza di abiti che non saranno mai più indossati, eppure continuano a sfilare nonostante quei nomi altisonanti siano “griffe” e non le anime di chi disegna e cuce.
Ho notato però una tendenza ben visibile a queste sfilate, confermato poi da un articolo di giornale firmato da un autorevole Giuliano Deidda, ovvero quella per cui gli stilisti fortificano la loro immagine non stralunando nel nuovo ma valorizzando quello per cui sono diventati celebri.

E forse è il motivo per cui finalmente si sono visti abiti, calzature e dettagli da capogiro, perché se fai bene le scarpe perché spingerti nel mondo della biancheria intima? Se ottieni il successo con i grandi abiti da gala perché fare la collezione sportwear?
Credo che in passato gli stilisti abbiano evaso dalle loro inquadrature per paura che qualche giornalista appuntasse sul suo taccuino la parola “noia” e l’aggettivo “noioso” come se essere fedeli a se stessi sia per forza un errore.

Prada 

Dolce e Gabbana
Invece questa settimana della moda milanese è stata folgorante proprio per questo motivo, c’era una maggiore coscienza di quello che ognuno sa fare e sono tornati a splendere i Made in Italy che rendono celebre una casa di moda piuttosto che un’altra.
Fendi torna alle pellicce, Max Mara fidelizza il suo imperituro amore per il color cammello, i tailleur, le tute intere e i cappotti di cachemire, Gucci ripropone dettagli d’archivio come borse e scarpe (anche se estremizzate nel più delle volte), Missoni abbandona tessuti troppo leggeri e veste con la maglia tradizionale i corpi di modelle che non sembrano astronavi o automi.
Gucci 

Così anche Luisa Beccaria che realizza i sogni di qualsiasi principessa vera o presunta continua a vendere la favola e non la triste storia metropolitana, sfilano abiti che sembrano usciti da un quadro di Botticelli e non orrendi jeggins di elastene, perché l’identificazione della griffe è un porto sicuro dove tornare sempre.
Siamo stufi dell’aggressività, dell’alienazione, di abiti fatti da giornali, piatti di plastica o parafanghi di auto dismesse, vogliamo sognare di poter indossare quegli abiti e non ridicolizzarli a tal punto che quel marchio sarà etichettato come quello che fa show e non bei vestiti.
Vendeteci il sogno, fate sfilare desideri forse irrealizzabili, sarete ripagati da una nostra grande emozione nel vedere che ancora oggi sappiamo cucire incanti e che no, non tutto è stato già visto e non tutto quello già fatto è meglio di quello che ancora sarà.
Versace 
 
Max Mara



IL BON TON DELLO SMART-PHONE

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Era da qualche tempo che sentivo l’impellente necessità di stilare una piccola lista di buoni comportamenti sull’uso proprio e improprio di questo maledetto marchingegno che a tratti ci ha migliorato la vita, a tratti ci ha completamente allontanato dalla realtà: lo smartphone.
Nei panni di una Lina Sotis, ma senza attico in Brera, anzi Bveva, ho iniziato a pensare alla nostra vita di tutti i giorni dove l’uso spasmodico del telefono è ormai necessario.
Senza demonizzare nulla, al contrario rientro nella categoria di chi usa lo smartphone quasi al limite delle sue capacità, ho osservato le abitudini di chi frequenta una grande città come Milano, perché nella patria italiana del “Devo sfruttare ogni singolo istante della mia vita ottenendo il massimo” spesso vediamo usare il cellulare nei momenti meno opportuni.

Ecco dei piccoli accorgimenti:

SUI MEZZI PUBBLICI: che tu disgraziatamente prenda un autobus alle 7 del mattino per volare dall’altra parte della città o che possa sollazzarti a casa e presentarti in ufficio dopo le 10 trovando il suddetto autobus quasi vuoto, inciamperai sempre e dico sempre in qualcuno parla al cellulare. Le donne solitamente sono animose nei confronti delle colleghe e parlano, parlano, parlano di quella che ha fatto una smorfia a quell’altra, di quell’altra che come si è permessa di non ricordare quell’appuntamento così importante a quell’altra ancora.
Gli uomini invece amano incondizionatamente l’auricolare, perché si sentono Bill Gates e giocano con il mimo alle quotazioni in borsa. Parlano di lavoro con termini stranieri, organizzano conferences calls con l’Australia e alzano la voce quando il loro ego deve ingigantirsi davanti al popolo dell’autobus, anche se in realtà sono capo-cantieri a Marcallo con Casone e hanno i jeans che usano per imbiancare il cartongesso.
Non sarebbe meraviglioso prendere un tram, una metro, un autobus senza quel fastidioso vociare di persone che stanno sistematicamente al cellulare? Perché sarebbe ancora più bello alle 8.20 del mattino non dover esser distratto dalla lettura del proprio libro perché sul più bello senti lei che sale alla fermata di Cadorna e urla all’auricolare “HO APPENA FATTO UNA COLONSCOPIA”.


SU WHATSAPP: tenere le conversazioni di Whatsapp ormai implica un orario lavorativo a tutti gli effetti. Con il fatto delle spunte blu, l’ultimo accesso, le decine di conversazioni multiple di botta e risposta per cui sei a rischio crollo nevrotico se dopo un’ora hai 543 messaggi del gruppo “REGALO KIKKA”, passiamo le giornate a leggere messaggi che se tornassimo agli Sms a pagamento non ci saluteremmo nemmeno più per non spendere. Invece Whatsapp è un fastidioso continuo, perché puoi interagire con una conversazione di gruppo alla volta, oltre è pura follia. Per non parlare delle note vocali, alcune così lunghe che possono essere tranquillamente indicate come sequestro di persona, con quel fastidioso sistema per cui se avvicini troppo  il telefono all’orecchio il messaggio si interrompe, e se invece disgraziatamente lo allontani tutti, e dico tutti, sentiranno la tua amica che urla “Oggi sono isterica, mi sa che mi devono arrivare”.

SIA BENEDETTO IL SILENZIOSO: ormai io uso il telefono senza suoneria e senza vibrazione, se qualcuno mi cerca e non mi trova dovrà essere così fortunato a cogliere il momento in cui ho il telefono sotto coda dell’occhio, altrimenti sarà ricontattato non appena sarò libero e spensierato per farlo. Perché non è possibile vivere in un mondo e districarsi tra una suoneria truzzissima, un’altra rockettara e un’altra ancora che riprende le sinfonie di Mozart. Regola d’oro, in ufficio il telefono resta silenzioso. Nessuno ha voglia di sentire la suoneria dei Kiss rovinare la pausa pranzo ogni santo giorno alle 13 in punto.

“TI DISTURBO?”: si chiama cellulare e ce l’hai sempre con te, questo significa che davvero chiunque può rintracciarti in qualsiasi attimo della tua giornata. Che tu sia impegnato a liberare l’intestino, affrontando un’operazione chirurgica o addirittura, oh ma guarda un po’, LAVORANDO. Così, se proprio non si può fare a meno di telefonare, c’è una parolina magica che aiuta a capire se non è un buon momento. Lo so, sembra incredibile che si possa avere una simile accortezza verso il genere umano ma quel “Ti disturbo? E’ un brutto momento?” ti rende più educato e socialmente accettabile.


Recenti studi scientifici di qualche università impegnata a rimpolpare le notiziole che poi saranno condivise con faccine divertite o disgustate, hanno decretato che il telefono è portatore di un quantitativo di germi quasi pari a una tavoletta di un cesso in un autogrill.
E allora perché al ristorante noi fieri e maleducati appoggiamo il nostro smartphone accanto al tovagliolo come se avesse un posto d’onore e un ordine preciso di una mise en place?
E’ l’uso che ne facciamo e soprattutto nell’educazione che ci imponiamo di seguire che fa di noi dei portatori sani di smartphone.
Abbiamo uno strumento che ci può migliorare la vita e ci può far scoprire ancora di più il mondo, basta che non viva lui per noi.



LE MILLE INSIDIE NASCOSTE DIETRO UNA T-SHIRT BIANCA

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Con il Levi's vintage, classica combo 

Anni '90 

Risolve qualsiasi abbinamento impossibile tipo scarpe di Paperina e kimono

In fondo sono un ragazzo semplice, uno di quelli che incontri nell’androne del tuo palazzo e che non solo ti saluta ma ti tiene aperto il portone, ti fa passare e addirittura ti dice “Buongiorno” sorridendo, che siano le 8 o le 11 del mattino, lunedì o sabato.
A volte ho manie di grandezze, vorrei abitare a Palazzo Serbelloni, indossare tiare di Pennisi, vestire solo Missoni e pigiami di seta, mangiare solo vitello tonnato di Peck, partire all’improvviso per Parigi e fare i capricci a San Pietroburgo, frequentare le aste di Christie’s e fare shopping nei migliori vintage del mondo senza preoccuparmi dei prezzi di alcunché.
Nella realtà sono un onesto lavoratore dipendente, vivo a Lambrooklyn in 50 metri quadri acquistati, ristrutturati e arredati sudando 8 t-shirt di H&M conscious, da Pennisi vado ad alitare sulle vetrine, a Peck preferisco il Pam dove posso pagare anche i fiori della domenica con i buoni ticket e lo shopping migliore che abbia mai fatto è quello ereditato dai vari nonni, prozii che pace all’anima loro mi hanno fatto avere un guardaroba pazzesco e di buon gusto.
Negli anni però ho capito che nell’abbigliamento il mio capo più importante, più apparentemente facile da indossare ma con mille insidie rimane e rimarrà sempre la maglietta bianca, la classica t-shirt che si ama o si odia ma che tutti hanno a dozzine nell’armadio.

Manica risvoltata casuale ma in realtà c'è uno studio ossessivo di tutto 

Maglietta bianca e bretelle, mio outfit preferito della vita 


Le ho provate tutte, di tutte le marche, di tutte le misure, grandezze, con tutte le tipologie di manica ma ogni volta è tragedia greca. Primo motivo di grande difficoltà per me è il lavaggio, quante magliette bianche sono diventate rosino, quante grigie spente e quante azzurrine perché sbagliavo temperature e capi da mettere in lavatrice? Non si contano.
Pare che all’ultima crisi di nervi per una maglia bianca diventata azzurro pastello abbia finalmente preso in pugno la situazione risolta con un detersivo al sapone di marsiglia che non lascia colore e residui. Altra piaga è il deodorante, quante maglie abbiamo rovinato per i segni di quel deodorante che la pubblicità decretava come l’unico al mondo che non lascia aloni? Niente deodoranti cremosi, niente profumi alla lavanda o quelli troppo liquidi. Il deodorante è come il profumo, una volta che trovi il tuo è amore imperituro for the rest of your life.

Sarinski docet 

Barbie Sarinski maglietta personalizzata 

La maglietta bianca ha mille insidie perché deve dare l’idea di casual, di “sono appena uscito di casa con la prima cosa che ho trovato ma guarda come posso essere chic e ordinato anche così”, ma non deve farti sembrare in procinto di mangiare alette di pollo fritto sulla poltrona guardando Maria De Filippi. No al sintetico, la t-shirt bianca è quella 100%cotone, senza bottoncini, loghi, scritte, svolazzi e maniche ad alettoni d’aereo, la regola d’oro è semplice.
Sta bene con le maniche leggermente rivoltate ma non deve nascondere il pacchetto di sigarette perché non siete Danny Zuko, deve essere di un bianco candido e una volta che il cotone ha fatto il suo dovere bisogna armarsi di coraggio e trasformare la vostra maglietta bianca preferita in un panno per pulire i vetri, Junior, il mio ragazzo delle pulizie, ringrazierà.
Dopo anni di gloriose battaglie e isterie, ho trovato la maglietta bianca perfetta e sapete quale sarebbe? Le t-shirt della Fruit of the Loom che hanno un cotone meraviglioso, resistente quasi immortale (ho detto immortale, non immune alla mia lavatrice) e con una vestibilità migliore di qualsiasi altro marchio. Le t-shirt basic della Fruit of the loom sono il massimo.

Quella pazza di Rockandfiocc, in assenza di tette da selfie basta disegnarle su una t-shirt BIANCA 

L’estate io metto praticamente solo magliette bianche che nascondono anche le ascelle pezzate, dettaglio non trascurabile quando pedali per 18 chilometri in bicicletta in pieno luglio. Quest’anno mi sono dato anche al piccolo ricamo e ho scoperto questo marchio delizioso MELIDE' che costumizza semplice magliette bianche 100% cotone con piccoli ricami handmade che la rendono ancora più carina da indossare in qualsiasi occasione. Ovviamente ho scelto la bicicletta come decorazione, ca va sans dire.
La maglietta bianca è uno stato d’animo, è un grido a voce alta “Hey sono semplice ma fico” e complice Grease, è davvero un must per qualsiasi stagione anno dopo anno.

Ps: al mio ultimo colloquio di lavoro mi sono presentato con una maglietta bianca perché is the new completo gessato e borsa 24 ore. 

T-shirt Melidé con ricamo bicicletta

Chiarona nazionale che ha ideato con Melidé una capsule collection disponibile su "The blonde Salad" 


QUELL'ANGOLO DI MILANO CHE BRILLA: PENNISI

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Via Manzoni 29. 
La tradizione vuole che Audrey facesse colazione da Tiffany osservando vetrine e diamanti annientando tormenti, malumori e pensieri scomodi, io faccio lo stesso ma davanti alle vetrine di Pennisi.
Chi vive Milano e si incuriosisce sulla città e la sua storia, non può non conoscere questo piccolo angolo di paradiso che vive là dove si spense Giuseppe Verdi, nell’edificio che ospita Il Grand Hotel de Milan, nel cuore pulsante del bel mondo milanese, via Manzoni 29.
Non è una gioielleria qualsiasi dove diamanti splendono a volte un po’ insapori e lugubri in attesa che qualche sciura li indossi, non è una boutique dove la testimonial della tale maison stampata su un 6 x4 ti guarda sensuale, non è un posto che può essere compreso da tutti, per fortuna.

Cartier a pioggia 
LA BELLEZZA. 
Qui i gioielli si portano appresso così tanta storia e arte orafa che pare di essere in un museo, nella sua accezione più alta, s’intende. Pennisi dal 1971 si occupa di gioielli antichi, dal 1780 al 1970 attraverso uno stile che è ben definibile, in particolare quello meraviglioso dell’art déco di cui è portavoce incontrastato.
Pezzi da lacrime agli occhi delle più importanti case del mondo come Bulgari e i Cartier degli anni ’20 perché è il simbolo di un’eleganza lontana e ammirata, dalle tiare dal sapore Romanov alle spille di brillanti e rubini che signore dell’alta borghesia indossavano più di 60 anni fa ereditate da nonne e bisnonne per cui i diamanti erano sì i migliori amici, ma rappresentavano anche uno status symbol e un investimento sicuro.

Ho chiesto a Emanuele Ferreccio Pennisi come mai chi ha la possibilità di avere tra le mani un gioiello simile riesca a venderlo, con quale coraggio aggiungo io, perché pezzi così importanti e di quel valore storico non sempre sopravvivono alle generazioni successive.
Mi ha risposto che le ragioni per cui qualcuno vende una tiara della bisnonna o una parure di smeraldi e diamanti grossi come noci sono svariati, dalla voglia di alleggerire cassette di sicurezza, dalla voglia di non pensare che quel gioiello fosse un dono di un ex marito, da una difficoltà economica o perché come disse una sua cliente “Quando me li metto questi smeraldi? Li indossavo alla prima della Scala ma ora si va in jeans”, così si monetizza e una parure liberty diventa un viaggio pazzesco, un appartamento nuovo per la nipote, un “fondo” per il futuro.






Tra collezionisti e signore dell’alta moda chi passa da Pennisi è un cultore del gioiello e del costume, che sa riconoscere la storia di uno quei pezzi esposti ma che non per forza chi li indossava prima diventa il motivo dell’acquisto.
Da quella piccola porticina di legno sono passati nomi altisonanti dell’aristocrazia e dello star system internazionale, Emanuele mi ha raccontato l’emozione di ricevere una telefonata dalla signora Mazzini (Mina), quell’entità quasi sovrannaturale che tutti amano ma che nessuno vede, di quella volta che Kate (Moss) gli fece cenno che sarebbe passata più tardi, di quanto è carina e gentile Naomi (Campbell) e della grande stima e amicizia che lo legava a Franca (Sozzani) che era solita scegliere in boutique gioielli da sfoggiare in speciali occasioni mondane, come la parure che indossava al festival di Cannes, acquistata di recente da una signora russa con un ottimo gusto in fatto di preziosi. E poi Cara Delevingne, Rosario Dawson, Patty Smith e l’immancabile regina incontrastata degli smeraldi a colazione: Marta Marzotto.

Pennisi è un’eccellenza milanese, da sempre abituati a vedere le sue vetrine a quell’angolo sarebbe impensabile un trasferimento perché nonostante le tante location esclusive che possono essere offerte, quello è Pennisi, quello è il suo regno, quello è il suo pezzo di Milano.


Ringrazio di cuore Emanuele per la gentilezza e la disponibilità con cui mi ha accolto e raccontato quel magico mondo che è il lavoro suo e della sua famiglia. 

Paparazzata spettinata appena uscita da Pennisi, Kate Moss.


IL MIO SALONE DEL MOBILE 2017

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CI SIAMO.
Tra lo sbocciare dei fiori, gli alberi rigogliosi e una Milano che si risveglia da un torpore invernale lungo e lugubre, il periodo di Marzo-Aprile è il più bello in assoluto e si inizia a vivere come sopravvissuti a un letargo di mesi e mesi.
E il salone del mobile è il segnatempo di tutto questo, fa scoccare esattamente l’ora in cui bisogna uscire e godersi la città visitando quanto più è messo a nostra disposizione, in maglietta leggera e occhiale da sole. E’ il mio evento preferito perché meno elitario della settimana della moda e viene fruito da tutti perché ce n’è per tutti, dai più piccoli ai più grandi, in un formento totale in tutte le zone di Milano.

Se all’epoca il Salone del Mobile era un’esposizione quasi per gli “addetti ai lavori” che dovevano parlare di viti e di seggiole come un cultore d’arte di fronte alla Gioconda, ora è uno spazio più ampio dedicato ai curiosi e a coloro che amano vedere cose nuove, sia per storcere il naso sia per godere dei contenitori che Milano offre.
L’aspetto più interessante per me è la possibilità di vedere esposizioni immerse in palazzi, sale e monumenti che la maggior parte dell’anno rimangono chiusi e sigillati perché utilizzati da enti come banche, fondazioni e multinazionali gelose dei loro patrimoni.

Ho già dato un occhio al sito ufficiale e ho già una breve (?) lista di cose che non vorrei assolutamente perdere e che vale la pena vedere per il meraviglioso contenitore, stupendomi come sempre per il contenuto di cui non sono un esperto ma che per curiosità imparo a conoscere.


Design Pride: tradizione del Salone del Mobile il corteo firmato “Seletti” con spettacoli e intrattenimento finendo nella meravigliosa cornice di Piazza Affari con un party che è sempre sulle cronache milanesi perché il più divertente di tutto l’anno.

Poldi Pezzoli: la prima casa museo di Milano che custodisce capolavori antichi tra Botticelli, Bellini e Hayez, diventa per la settimana del design una sorta di foresta firmata studio Eligo.

Chiostro di San Simpliciano: intarsi di legno e pelle firmati Matì in una cornice meravigliosa della nostra città.

Piazza XXV Aprile: installazione di Timberland che ha reinventato l’iconica scarpa da barca di cui sono follemente innamorato fin dall’infanzia.

Palazzo Litta: imperdibile ogni anno perché patrimonio del FAI è un capolavoro barocco della nostra città e gli interni sono da lacrime vere, non essendo sempre visitabile vale la pena dare un occhio alle installazioni moderne così come agli stucchi settecenteschi del boudoir della Marchesa Litta.

Albergo Diurno: patrimonio del Fai in piazza Oberdan è quel che rimane di un luogo che ha fatto storia a Milano e che adesso è diventato una delle maggiori curiosità della città. Gli ex bagni di Porta Venezia con servizio di barbiere, manicure e pedicure e terme è un capolavoro del 1925 al di sotto della piazza e durante la settimana del salone diventa accessibile a tutti.

Palazzo Castiglioni:è il primo edificio Liberty di Milano, patrimonio FAI, anche questo è uno spettacolo da non perdere durante la settimana del salone.

Biblioteca Venezia: ex cinema Dumont, in porta Venezia, è un piccolo edificio Liberty adibito a biblioteca che vale la pena visitare esternamente e internamente per i suoi tipici fregi di inizio secolo.

Chiesa del Sacro Cuore di Gesù: in viale Piave, una chicca della zona tra Piazza Indipendenza e Porta Venezia.

Hotel Diana Majestic: elegantissima testimonianza del liberty milanese ha dall’anno scorso inaugurato il giardino e offre sempre un’incantevole cornice agli eventi durante il salone e non solo.

Cortile del liceo Parini (via San Marco 2): per la prima volta una scuola pubblica apre i battenti per il salone del mobile e ospita un’installazione di una garden designer.

Casa del Manzoni / Gallerie D’Italia: installazioni luminose in una cornice che è da mozzare il fiato per la bellezza dell’architettura dello spazio espositivo.

Fondazione Feltrinelli: da poco inaugurata sarà davvero uno dei fulcri di questo salone del mobile perché la curiosità di tutti i milanesi è così tanta da esser messa in cima alla lista.

Accademia di Brera: perché è sempre così, cornice iconica per ogni evento di cultura, centro nevralgico di tutto quello che a Milano è considerato arte.

Palazzo Isimbardi: non sono mai stato e non lo conosco ma il cortile settecentesco farà da sfondo a qualche installazione e credo che valga la pena buttare un occhio curioso, male non fa.

Mostra di Damiani a Palazzo Reale: quando si parla di diamanti il sottoscritto è sempre presente.

E poi zona Tortona, via Savona, Isola, le cinque Vie ecc.
Milano durante il salone del mobile è come un formicaio che si vuota e fa rifornimento di arte, intrattenimento, folclore e cultura. Ed è meravigliosa.
  

LA STORIA DEL COSTUME ITALIANO SECONDO DAMIANI

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In un’altra vita dovevo essere una gazza ladra perché al primo sbrilluccico potente io vado in tilt, mi si appanna la vista e cado in un vortice. Questa è stata un po’ la sensazione prima di dormire sabato 8 aprile quando sono stato ospite della mostra di Damiani a Palazzo Reale.
La maison di gioielli ha infatti fortemente voluto questa esposizione che richiama la tradizione orafa in un angolo di Milano importante per la storia che rappresenta e soprattutto per i personaggi che l’hanno resa celebre, tra cui la regina Margherita.

Collier a pavone con diamanti bianchi, zaffiri e smeraldi 


Al piano nobile attraverso tre stanze si ripercorre così la storia del costume italiano osservando dettagli, ispirazioni e disegni in un secolo che ancora brilla nel nostro immaginario, basti pensare ai gioielli del 90esimo anniversario qui esposti che sono una vera e propria testimonianza per ogni decade.
Il collier oro bianco e diamanti che cade come una piuma a rappresentare l’elegante leggiadria degli anni ’20 o il bracciale Cascade per gli anni ’30, fino agli anni ’60 con un motivo geometrico a pavè di brillanti e smalto, oppure gli anni ’90 con Moon-shine e il D-side per l’atteso 2000.

Il mio preferito, "TWINS".
Tra una sala e l’altra un preziosissimo diamante giallo che come ci ha riferito uno dei responsabili della mostra “Ci si può perdere dentro osservando la profondità del diamante”, e io ho aggiunto che ho visto scorrere tutta la mia vita da quanto era bello e quasi incantato.
Difficile riprendersi ma se la prima sala vi ha messi in crisi, la seconda sala vi manderà in blackout.
Infatti qui sono esposti tutti i gioielli che hanno vinto gli oscar, sì proprio così, perché esistono gli oscar dei gioielli dove a esser premiata non è Tilda Swinton ma il bracciale di diamanti che ha indossato Tilda Swinton durante la notte degli Oscar. Ma non fraintendiamoci, il gioiello non vince perché indossato da un personaggio ma per la bellezza in sé del design, della preziosità e dalla maestria con cui è stato pensato e realizzato.

Un bracciale di 900 diamanti a spirale lungo tutto l’avambraccio, pensato come uno scheletro che si deforma durante i movimenti senza far saltare griffe e binari, oppure un meraviglioso bracciale disegnato come un fulmine e degno di Wonder Woman. Qui in una teca il mio preferito, un anello a fascia multiforme chiamato “Twins”, con 118 diamanti bianchi taglio baguette per 7 carati di meraviglia.

La tiara originale di Sveva Della Gherardesca quando nel 1952 sposò Nicola Romanov



Nella terza sala brillanti collier da sogno ma soprattutto la tiara della collezione “Fiori d’arancio” in collaborazione con Nicoletta Romanoff, un capolavoro di intarsi in oro rosa, diamanti e perle, ispirato a quella originale esposta per l’occasione indossata nel 1952 a Cannes dalla nonna di Nicoletta, la contessina Sveva Della Gherardesca quando sposò Nicola Romanov. Qui commozione, non sapevo che Nonna Sveva avesse custodito ancora la tiara del suo matrimonio.
(Scrissi due anni fa un post su Sveva Della Gherardesca, potete leggerlo QUI

Nicoletta Romanoff indossa la tiara rieditata da Damiani per la collezione "Fiori d'arancio".

La mostra si conclude con un’anteprima speciale sulla collezione nuova di Damiani “Margherita”, ispirata proprio alla Regina Margherita, icona incontrastata dei gioielli e soprattutto delle sue leggendarie perle. Si dice infatti che Margherita avesse il filo di perle più lungo del Regno d’Italia e che ogni giro corrispondesse a un tradimento del marito, Umberto I.
Qui la storia del costume si relaziona perfettamente a un’esigenza più moderna, quello di utilizzare il gioiello come un accessorio elegante e indossabile senza per forza dover appartenere a una casata imperiale e senza dover sgambettare tra un ballo di gala e un red carpet prestigioso.
Anche se poi la parure in perle e diamanti è un sogno che ti riporta a quei balli del Quirinale quando il regno d’Italia albeggiava e la Regina Margherita era l’unica fashion influencer che contava.

La collezione "Margherita" ispirata alla Regina consorte di Umberto I di Savoia.
La sera ho fatto fatica ad addormentarmi, la notte ho sognato gioielli e la mattina ripensando a quelle povere teche tutte sole al buio mi sono rattristato.
Davanti ai gioielli rimango estasiato come Paolo Brosio a Medjugorje.

Ringrazio tantissimo Carlotta che ci ha voluti tutti insieme a Milano per accompagnarci alla mostra e che si è divertita in modo sadico a farci provare diamanti grossi come noci da 1 milione di euro per poi strapparceli crudelmente, e pensare che eravamo completamente a nostro agio come se il divano della boutique di Damiani fosse il nostro habitat naturale.
E’ stata un’esperienza incredibile da cui ancora non ho ben preso le distanze, perché non ne ho nemmeno l’intenzione.

 
Mi manchi.
 
A nostro agio. 



LA SIGNORA DI PIAZZA TOMMASEO

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Photo credit:
Quel pomeriggio a Milano si era alzato un vento anomalo, di quelli che improvvisamente fanno oscurare il cielo e poi lo rendono limpido, una folata d’aria così forte da far sibilare tutto e far tremare i vetri. In quel frangente c’ero io che pedalando sulla bicicletta pensavo che le alternative fossero due: farmi trasportare dal vento, ma ovviamente ero controcorrente, oppure prendere un tram.
La fortuna non è mai stata dalla mia, il tram 10 era appena passato e io che non voglio mai arrivare in ritardo agli appuntamenti decido che così pedalata dopo pedalata sarei arrivato sano salvo e cosparso di polvere alla mia meta: Piazza Tommaseo.
Chi ama Milano lo sa che Piazza Tommaseo è la pace dei sensi, per la quiete ovattata delle case avvolte da splendidi giardini, per i fregi Liberty di via Mascheroni e per quell’aria da quartiere con i bambini che scorazzano indisturbati giocando tra le magnolie che ad Aprile sono uno spettacolo meraviglioso.

E lì nello storico negozio che dal 1978 detiene il monopolio assoluto della piazza conosco finalmente questo personaggio quasi mitologico, la signora Pupi Solari in persona.
Accomodato nel salottino tra teiere d’argento ed eleganti ritratti di cagnolini la saluto quasi intimidito perché ne ho tanto sentito parlare negli anni e morivo dalla voglia di passare un po’ di tempo con lei per curiosità e simpatia.
Elegantissima e statuaria, tutti la chiamano Signora e non credo si possa fare altrimenti, con grandi occhi chiari e una chioma fiocco di neve tirata in modo perfetto, mi guarda e mi chiede “Che cosa posso raccontarle?”.
Quando squilla il telefono dice che sta facendo “l’intervista” e io sorrido perché non avevo delle vere e proprie domande per lei e non sono un giornalista professionista ma calato ormai in quel ruolo ho chiesto di raccontarmi un po’ che cosa l’ha portata a Milano e cosa secondo lei si è inventata.

La signora Pupi, cha ha compiuto 90 anni, si trasferisce da Genova, la sua città e la sua terra più cara, a Milano dove tra qualche vicissitudine e qualche lavoretto di salvataggio “La mia carriera da segretaria per fortuna è durata ben poco” decide di buttarsi e apre un piccolo negozietto di abiti per bambini in Largo V Alpini, si chiamava “Snoopy”, era il 1969.
“Piangevo tutti i giorni perché non sapevo come sarei arrivata al giorno dopo” ma la tenacia, l’intelligenza e il fiuto non le hanno fatto cambiare idea e piano piano quel piccolo negozio in una zona che non era commercialmente attraente come le pretenziose vie del centro quali Montenapoleone, Borgospesso e Brera, diventa un indirizzo per chi volesse vestire i bambini con garbo e gusto.
Nel 1978 l’occasione d’oro e il trasferimento in piazza Tommaseo, “Non mi sono mai pentita della scelta che ho fatto, economicamente sì perché gli affari sarebbero andati ancora meglio se fossi stata in Montenapoleone, ma non avrei visto gli alberi e la pace è impagabile” perché è un’oasi felice e come aggiunge “Qui ci sono solo io e non c’è nessun negozio accanto che controlla quello che faccio io, io qui non so nulla degli altri”, e forse è questo il segreto di longevità per un’attività commerciale, fidarsi del proprio lavoro e non mettersi (troppo) in competizione con gli altri.


Pupi Solari
“E come vede vestiti i bambini di oggi?” le chiedo con provocazione, “Tremendi”, è il suo imperante giudizio, perché è vero che siamo abituati a quel fastidioso fast fashion giustificato dal “Tanto tra due mesi non  andranno più bene” ma il gusto per gli abiti da bambini manca totalmente.
In giro solo un tripudio di brutti vestiti con tanti strass per lei e tante scritte per lui, il bambino di 2 anni veste come il fratello di 8 che a sua volta scimmiotta il look del padre, quando invece un completo dai colori tenui, una camicia con tessuti liberty a fiorellini e un bermuda di vellutino lo rendono così bello che non ci sarà donna che al suo passaggio non esclamerà “Sembra un piccolo Lord”.
Quello che contraddistingue il negozio della signora Pupi Solari è che da quasi 50 anni veste il bambino nel modo più elegante che ci sia, con quello stile classico che da piccoli si odia e da grandi si ringrazia, con quei dettagli che non possono passare di moda perché sono eterni e intramontabili.

Tra quelle mura saranno passati tanti Filippo, Leone, Guglielmo, Gianluigi e Gilberto, così come tante Maria Sole, Vittoria, Ludovica, Ginevra e Margherita, le stesse che 30 anni dopo nel giorno del loro sì indossano un abito scelto e cucito nella sartoria di Pupi Solari trasformando un broncio infantile per quell’abito a nido d’ape che la madre le obbligava a indossare, in un sorriso avvolto da un elegantissimo allure.
Le spose di oggi si presentano alla prova dell’abito con 12 persone e cercano la lacrima d’emozione perché è quello che ormai lo show del matrimonio impone ma Pupi su questo non transige, “Sono sempre dalla parte della sposa” dice “Ma non devono fare le suorine e nemmeno le erotiche”, poi chiede alla nipote Maria come vede il suo matrimonio  e quando le dice “A Portofino su un prato a piedi scalzi” è molto contenta perché è molto Pupi Solari come immagine, aggiungendo un dettaglio ancora più elegante “STRUCCATA”.
Dalle sue parole ho capito che Genova è la radice, Portofino è il suo angolo di paradiso dove rifugiarsi e contemplare le proprie fatiche (anche quelle fisiche viste le alture da cui pare scenda senza un lamento presentandosi in piazzetta fresca e pronta per la cena) ma è Milano la sua città.

“Sono molto contenta perché ho avuto una bella vita e piano piano ho capito che Milano l’ho fatta mia” e aggiunge scusandosi per il pizzico di presunzione “Ho il più bel negozio di abiti per bambini d’Italia” ma inutile scusarsi perché non è presunzione ma l’evidente realtà.
Sfido chiunque, aspirante genitore o no, a entrare da Pupi Solari e non rimaner esterrefatto dall’atmosfera delicata ma non eccessivamente zuccherosa della boutique, con quel buon gusto che non sa di antico e non scimmiotta il moderno, con le venditrici in divisa che da anni accolgono clienti affezionati di cui hanno vestito figli e nipoti (una di loro in particolare festeggia i 37 anni di fedele servizio!), il tutto sotto l’occhio vigile e attento della Signora che non delega e chiude il negozio tutte le sere anche se scherzando con una risata contagiosa  mi confessa “Sento che sto passando da padrona a serva!”.
Quando è giunto il momento di salutarla la ringrazio e le faccio i complimenti per le friulane color senape che indossa e così mi invita a seguirla nel negozio accanto, il reparto uomo chiamato “Host” dal cognome dell’architetto Giorgio Host-Ivessich, suo secondo marito, perché vuole regalarmene un paio.

Usciamo dal negozio, una folata di vento si alza verso di noi ma la Signora incurante della temperatura guarda la vetrina e bisbiglia qualcosa, fa cenno alla venditrice che i conigli pasquali vanno spostati un po’ più a destra e poi si fa salutare da un signore per bene che le fa un baciamano d’altri tempi, come in un film.
Sceglie per me il color blu per le friulane in velluto e quando le dico “Queste le metto in una teca come un cimelio” quasi si imbarazza felice.
“Ti aspetto a Portofino Lorenzo!”.
Non immagina che il regalo più bello che potesse farmi non sono solo le friulane del mio colore preferito ma l’aver potuto passare del tempo con lei, con questo personaggio che ha fatto storia in quel ramo di Milano che è Pupi Solari.



Un ringraziamento speciale a Maria che ha fatto da intermediario tra me e il gigantesco mondo della sua amata Nonna. 

MARCIA SU LIBERTY MILANESE

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Questo post lo dedico con tutto il mio più sentito affetto a coloro che “Milano è brutta e grigia”, “A Milano non c’è nulla se non il Duomo, le vetrine di Via Della Spiga e il treno per tornare a casa”.
L’aspetto più sorprendente di Milano è che va scoperta e che non tutto appare sotto gli occhi convulsi di chi è lì ad aspettare che le meraviglie di una città cadano dal cielo senza informarsi, incuriosirsi e con le gambe in spalla andarle a cercare.

Un sabato pomeriggio di cielo azzurro limpido e di un sole caldo e alto ho studiato un percorso che attraversasse la Milano Liberty più bella, con i suoi palazzi scultura, riassaporando quella lontana e bellissima epoca in cui c’erano ancora le carrozze e le signore portavano lunghe piume su cappelli addobbati.
Un percorso che avendo a disposizione circa 5 ore potrete rifare anche voi armati di profilo Instagram e soprattutto di scarpe comode.

Casa Campanini

PARTENZA: da Piazza Cinque Giornate con spuntino pret à porter dal mio panificio preferito “Zanotti” al civico 6, oppure con un gelato di Umberto, al civico 4. Breve sosta pipì al Coin e via per il cammino prendendo via Donizetti.
Via Donizetti è una via che si addentra in un quartiere di palazzi signorili molto belli e soprattutto tranquilli, sembra di stare in una Milano non congestionata dal traffico, con del verde e un’atmosfera quasi da paesetto raccolto, al civico 14 e 16 si inizia a vedere qualche dettaglio Liberty con questi fregi che costeggiano i balconi, i ferri battuti delle ringhiere e i dettagli floreali.
Le due casette accostate azzurra e gialla sono il giusto antipasto perché il primo vero capolavoro Liberty della zona è a un tiro di schioppo, infatti continuando verso Via Donizetti si incrocia via Bellini dove si erge CASA CAMPANINI, via Vincenzo Bellini 11, prima tappa ufficiale di questo tour.
Questo palazzo è stato progettato dall’architetto Afredo Campanini come sua residenza ufficiale tra il 1904 e il 1906 ed è a mio parere l’esempio più bello di architettura Liberty di Milano, l’ingresso maestoso è decorato da queste due enormi figure femminili, le cariatidi, che sembrano quasi sfumare in un volteggio tra fiori, fronzoli e dettagli elegantissimi del ferro battuto, opera di Alberto Mazzucotelli. E’ un palazzo molto elegante di fronte alla chiesa della Passione, accanto al Conservatorio, da notare in tutta la sua bellezza anche di spigolo perché ogni balcone è un capolavoro di scultura dell’epoca.

Casa Berri Meregalli 
Ingresso di Casa Berri Meregalli con la scultura di Wildt

Proseguendo per via Conservatorio, incrociando Corso Monforte prima e via Vivaio dopo con l’Istituto dei Ciechi sulla sinistra a un certo punto si sbuca in via Mozart, una via straordinaria per la bellezza architettonica degli edifici, prima tra tutti la stupenda Villa Necchi, ma anche per la seconda tappa del tour.
CASA BERRI MEREGALLI, via Mozart 21, un edificio tardo liberty del 1910-1912 costruito da Giulio Ulisse Arata per gli imprenditori Nebo Berri e Innocente Meregalli.
Questo palazzo è una reminescenza del Liberty elegante e sofisticato avvolto da un misterioso e soprattutto fantasioso stile medievale, il mattone e le teste d’ariete che inghiottono i pluviali sono dettagli eclettici che costituiscono lo stile di questo architetto, il cosiddetto stile “Arata”.
Un altro palazzo 1911-1914 sempre costruito da Arata per gli stessi imprenditori si trova proprio lì dietro, al civico 8 di Via Cappuccini ( impossibile non notarlo soprattutto se passate di lì per vedere i fenicotteri di Villa Invernizzi venendo da Piazza Eleonora Duse) e il dettaglio più bello è l’ingresso, maestoso, quasi come fosse un castello ma decorato da elementi a mosaico molto suggestivi. Nell’androne si trova una porta a ferro e vetro decorata da Mazzucotelli e una statua a forma di testa alata realizzata da Adolfo Wildt che al numero 10 di Via Serbelloni aveva realizzato il citofono a forma di orecchio.

Casa Galimberti.

Casa Guazzoni.
Ex Cinema Dumont.
Oltrepassando piazza Duse e passando sotto l’arco si arriva in Corso Venezia, qui è necessario proseguire verso Piazza Oberdan e prendere poi via Malpighi, fulcro del più bel Liberty milanese.
CASA GALIMBERTI, via Malpighi 3. Edificio di una bellezza sfolgorante per le sue raffigurazioni femminili dipinte su piastrelle di ceramica, costruito tra il 1903 e il 1905 su progetto di Giovanni Battista Bossi, qui c’erano delle scuderie che vennero smantellate tranne in una parte dell’isolato dove sono ancora visibili e che potevano contenere fino a 54 cavalli.
Sempre in via Malpighi al civico 12 c’è un altro esempio meraviglioso di Liberty milanese datato 1904-1906 CASA GUAZZONI costruito sempre da Giovanni Battista Bossi per il Cavaliere Giacomo Guazzoni, capomastro, che realizzò le decorazioni di putti e le corone di fiori che adornano le finestre e i balconi, mentre i ferri battuti sono di Mazzucotelli. Qui il colore del cemento viene lasciato al naturale e gli elementi decorativi non sono dipinti come invece Casa Galimberti, è uno stesso modo di interpretare le volute regole del Liberty, un dettaglio che rende unici le nostre architetture rispetto a quelle degli altri paesi.
Di fronte alla Casa Guazzoni si trova l’EX CINEMA DUMONT  (1908) che sembra una piccola stazione ferroviaria ma che in realtà era il vecchio cinematografo dei fratelli Galli, oggi rimane la facciata Liberty con piccole decorazioni floreali più francesi che italiane, ospita una biblioteca comunale.

Lù Bar, via Palestro 16.

Lasciandosi alle spalle Porta Venezia e attraversando il parco di Palestro si può fare una tappa relax, pipì, cibo, acqua in un nuovo posticino che hanno inaugurato da poco, Lù Bar, all’interno di un’ala di Villa Belgiojoso che ospita la Gam, Galleria d’arte Moderna.
Un luogo davvero molto bello e perfettamente rimodernato con un giardino d’inverno molto accogliente e un grazioso pergolato esterno dove si può bere qualcosa in un’atmosfera idilliaca. Consigliatissimo, via Palestro 16.
Palazzo Castiglioni.
Breve pausa e di nuovo gambe in spalle, riprendendo Corso Venezia perché una tappa di questo forsennato tour è proprio PALAZZO CASTIGLIONI, Corso Venezia 47, primo edificio Liberty di Milano progetto da Giuseppe Sommaruga nel 1902 per l’industriale Ermenegildo Castiglioni. E’ un palazzo maestoso e incredibilmente elegante per i fregi, le decorazioni, le api poste sul cornicione più alto e i ferri battuti dell’ingresso. Peccato che originariamente ci fossero due figure femminili tipiche dell’architettura Liberty (vedi Casa Campanini) che a detta del populino milanese erano troppo procaci e troppo sensuali nonostante simboleggiassero la pace e l’industria, addirittura il palazzo venne chiamato “Ca’ di ciapp”, casa delle chiappe. Venne così rimaneggiata la facciata del palazzo che ora ospita la Confcommercio.
Un altro edificio liberty meno conosciuto ma altrettanto bello da ammirare si trova in via Senato 28, CASA TOSI, un esempio di come il liberty spesso possa riassaporare anche i nostalgici tratti baroccheggianti.
Casa Tosi.

Riprendendo ancora Corso Venezia, imboccando poi corso Vittorio Emanuele II nella bolgia infernale dei provinciali in preda a uno shopping sfrenato, sulla destra si apre la famosa PIAZZETTA LIBERTY, che prende il nome dal palazzo che sovrasta la piazza e che pare un po’ strano perché la facciata è sì liberty ma è inglobata in un edificio del 1954. La facciata è infatti l’unica parte sopravvissuta del bellissimo Hotel del Corso,1902, distrutto a causa dei bombardamenti, e rimontato in parte su questo edificio 50 anni dopo.

Casa Ferrario. 

Attraversando invece Piazza Duomo e prendendo, ahimé, la congestionata via Torino si gira subito a destra su Via Spadari per ammirare non solo le meraviglie gastronomiche di Peck ma alzando gli occhi verso il palazzo accanto, CASA FERRARIO,via Spadari 3, progettata da Ernesto Pirovano nel 1902, con i ferri battuti di (indovinate chi?) Mazzucotelli che questa volta ha battuto se stesso realizzando delle farfalle che sembrano spiccare il volo da un momento all’altro riprendendo quello che era lo stile Liberty di un architetto belga.
Ora i più ardui potranno incamminarsi su Via Meravigli e corso Magenta a piedi, mentre i più stanchi potranno salire sul tram 16 e scendere alla fermata di Santa Maria delle Grazie, prendendo poi via Lorenzo Mascheroni perché il tour si sposta verso Piazza Tommaseo.

Piazza Tommaseo.
Qui si erge un delizioso villino Liberty che apre la visuale sulla piazza, in questa zona vennero eretti nei primi anni del ‘900 molti villini di imprenditori e ricchi borghesi, tra cui Ulrico Hoepli, l’editore che ha donato alla città di Milano il planetario ai giardini di Porta Venezia, che qui aveva un suo villino in stile Liberty con un’alta torretta, purtroppo demolito nel dopoguerra.
Dietro Piazza Tommaseo su via Tamburini al civico 8 c’è il VILLINO MARIA LUISA del 1906, un liberty contaminato da un’influenza neogotica – neorinascimentale con un mosaico blu e dorato maestoso, stupenda anche la cancellata del nostro ormai grande amico Mazzucotelli.
Incamminandosi verso Corso Magenta si arriva all’ultima tappa di questo tour, percorribile in circa 5 ore con la giusta ammirazione dei palazzi e il tempo necessario per fare tutte le foto e le considerazioni da grandi cultori di architettura.

Casa Laugier.
CASA LAUGIER, corso Magenta 96, all’angolo con piazzale Baracca, costruito tra il 1905 e il 1906 su progetto di Antonio Tagliaferri per il Barone Laugier di origine valdostana. Il palazzo si erge sulle appena demolite mura spagnole ed è sobrio nelle sue decorazioni floreali che circondano i balconi (i ferri battuti sono di Mazzucotelli aridaje), unico tratto più decorativo sono le teste di leone che spezzano le altezze delle paraste appoggiate alla muratura di mattone e qualche fronzolo colorato.
All’angolo si trova la Farmacia Santa Teresa che conserva ancora le ceramiche e i pannelli lignei degli interni originali del 1910, come se il tempo si fosse fermato (dall’altro lato del marciapiede invece c’è la pasticceria Biffi, una vera meraviglia per l’arredo e i dolci!).

Si conclude così il tour sul liberty milanese, se siete arrivati fino a qui, sia nella lettura che nella visita, allora meritate un brindisi con un ottimo spritz accompagnato da un aperitivo a buffet per riacquistare le calorie consumate, consiglio il Colonial Cafè, corso Magenta 85, soprattutto per le ampie poltrone dove finalmente posare le chiappe.







QUELLE STREGHE DELLE MILLER

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STREGHE.

C’erano una volta Anastasia e Genoveffa, le brutte ma ricche sorelle della povera Cenerentola, quest’ultima capace di toglier loro addirittura il principe azzurro che la cerca disperatamente conscio di aver solo una effimera scarpetta di cristallo sull’orlo della rottura. Quella però è una favola, la realtà è ancora più amara da digerire perché appare quasi come un’ingiustizia.
Nella realtà condividiamo lo stesso sistema solare delle tre sorelle Miller, Marie Chantal, Pia e Alexandra che nell’immaginario collettivo sono tre bionde magre alte e ricche, ereditiere ben prima di Paris Hilton, del padre Robert a cui dobbiamo i più grandi duty free del mondo negli aeroporti più strategici.

Pia Miller.
Marie-Chantal Miller

Alexandra Miller nel giorno del suo discreto matrimonio. 

Le nostre mamme e le nostre zie le hanno invidiato poco a poco, prima per gli studi esclusivi in Svizzera, poi per i matrimoni che sembrano alleanze di sangue come al tempo dei Tudor con famiglie che hanno blasone o potere, è indifferente.

Pia sposa Christopher Getty, magnate del petrolio, nel 1992 per esser sicura di cadere sempre in piedi, Marie Chantal però fa di più e cavalca l’altare nel 1995 con Pavlos di Grecia, il figlio dell’esiliato re di Grecia Costantino (dal 1973) mentre nello stesso anno la povera Alexandra  si deve quasi “accontentare” di Alexandre Von Furstenberg, figlio della stilista Diana e nipote di Clara Agnelli (sorella di Gianni Agnelli), tre famiglie che insieme potrebbero quasi bastare a soddisfare il prodotto interno lordo di una nazione.

“Sì però sai che noia esser solo ricche” commenteranno alcune invidiosette ma le sorelle Miller mettono a tacere anche loro, perché non stanno con le mani in mano al contrario sembra quasi che lavorino a tempo pieno. Pia per il gruppo Sephora, no non trucca le 15enni a gratis il sabato pomeriggio in corso Vittorio Emanuele, Alexandra nel campo della moda con la suocera e Marie Chantal fa la principessa a tempo pieno e ha una sua linea di abiti da bambini come tutte le aristocratiche che contano.


Isabel Getty
La seconda generazione di streghe, Maria Olympia, Isabel e Talita
Maria Olympia di Grecia
STREGHEEEEEEE.

Il fiore all’occhiello di queste tre signore dell’alta società che, ricordiamolo, nascono senza una goccia di sangue blu ma con un portafoglio molto carico, oltre alla loro indiscussa bellezza sono le tre figlie, le tre cugine Miller.
Dalle streghe nascono le streghe, infatti se le tre sorelle Miller erano belle e ricche, la seconda generazione è anche molto peggio della prima.

Isabel con la mamma Pia

Isabel Getty, (22 anni), Talita Von Furstenberg (quasi 18 enne) e Maria Olympia di Grecia (20 anni) sono come un trio musicale pop dei primi anni ’90, ognuna ha le sue caratteristiche forti ma insieme sono una bomba a orologeria pronte a far invidia a tutte le nuove generazioni di ragazzine alla ricerca di icone e capro espiatorio.
Isabel la sofisticata, Talita la maliziosa e Maria Olympia la mondana si incontrano ai party in giro per il mondo, vivono di base a New York e sono quasi certo che non sposeranno il panettiere sotto casa, lo studente squattrinato di Brooklyn o un impiegato delle poste ma un broker di Wall Street (esistono ancora o si sono estinti nel 2002?), un erede di qualche collezionista d’arte e guarda un po’ un nobile con laurea ad Harward? Staremo a vedere.
Belle sono belle, ricche son ricche e social son social, per cui è facile spiare il loro motto di vita “LIKE SEMPRE IN POPPA”e le loro altolocate conoscenze girano il mondo attraverso moda musica e manzi californiani.

Talita Von Furstenberg, la didascalia era "On wednesday we wear pink" la mia preferita
CIAO MILANOOOOOO
Maria Olympia e Talita 
Maria Olympia 

Sono affezionato a loro come fossi un fratello o un cugino maggiore, quando sono troppo scosciate su Instagram vorrei bacchettarle o quando fanno le linguacce vorrei dir loro che non si fa perché non è questo lo spirito con cui vi abbiamo cresciuto eh!
Ps, la mia preferita è Talita perché è la piccola frivola del gruppo che cita Mean Girls ed è ossessionata dai suoi capelli.
Qui trovate i loro profili Instagram:

IL PRINCIPE FILIPPO VA IN PENSIONE

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Partiamo dal presupposto che Queen Elizabeth è un robot a cui basta ricaricare le pile durante la notte e ogni tanto portare una batteria usb di ricambio per le emergenze nella borsetta, ma sua Maestà che ha appena festeggiato il 21 aprile i suoi 91 anni ha già stipulato insieme al Governo un accordo che elenca punto per punto cosa dovrà succedere, e succederà statene certi, quando purtroppo esalerà l’ultimo reale respiro.
Non voglio nemmeno immaginare cosa può essere il mondo e la Gran Bretagna senza di lei, in tanti nemmeno lo sanno perché il prossimo 2 giugno saranno ben 65 anni che è seduta là su quel trono che molti sottovalutano ma che ha più occhi addosso di qualsiasi altro angolo di terra e di cielo.
Oggi, 4 maggio, tutto il globo si è allarmato per una riunione segreta e urgente convocata a Buckingham Palace, un po’ spifferata dal gran ciambellano, che ha sparso il panico sui social e che ha creato un toto-notizia quasi delirante.

Queen Elizabeth è mancata? Abdicherà in favore di Carlo costringendolo però ad abdicare a sua volta perché piuttosto di vedere Camilla con una corona si farebbe congelare fino al 2056? Vuole rovinare le imminenti nozze di Pippa Middleton vendicandosi di quel vestito per cui fu più celebre il suo lato b che le nozze di sua sorella Kate?
Ci siamo tutti un po’ spaventati senza motivo, quando poi in effetti è stata declamata a gran voce la ragione di questa riunione urgente tutti abbiamo un po’ sospirato “Ah va beh”.
Buckingham Palace annuncia che il principe consorte, Filippo, si ritirerà un po’ a vita privata dal prossimo autunno e che da qui a quel momento non salteranno le sue partecipazioni agli eventi, mondani e non, di cui si era fatto impegno.

La casa reale inglese annuncia


Filippo è il consorte che accompagna Queen Elizabeth in tutte le visite ufficiali, in tutte le celebrazioni del Regno e in tutti i matrimoni, battesimi e funerali reali, siamo abituati a vederlo lì bello e sorridente accanto a lei radiosa e acclamata da tutti.
È un uomo distinto ed elegante, un po’ frizzantino lo è stato negli anni, ma il loro amore a mio avviso è fin troppo solido nonostante le scappatelle di lui e il peso della corona di lei.
Non credo sia facile stare accanto alla più longeva regina della storia della Gran Bretagna, una donna simbolo di due secoli, senza sentirsi un po’ messi all’angolo, ma il principe Filippo a 95 anni c’è arrivato fresco come una rosa e con un entusiasmo esemplare.
“Dal prossimo autunno mi ritirerò ma continuerò a seguire le associazioni di cui sono Presidente onorario”, suona un po’ come “Ora basta voglio giocare a bridge fino allo sfinimento, bere del tè super zuccherato e mettere addirittura i piedi sulla mia poltrona preferita guardando Beautiful, OH”.

A 95 anni pensare di arrivare addirittura al prossimo autunno quando io nemmeno prendo l’appuntamento per il dentista da qui a 3 mesi è incoraggiante e Filippo ha fatto bene, un po’ di meritato riposo e una pensione anticipata che saprà godersi al meglio. 

Quanto amore 

QUANDO LA SORTE SI PRENDE GIOCO DELL'ARTE

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Ci sono opere d’arte dal profondo valore simbolico che ci sono state tramandate per l’importanza del loro messaggio, mi viene da pensare alla Guernica o alla Libertà che guida il popolo, ma ne esistono altre ben più nascoste e frivoleggianti che però nascondono una storia di rivalsa nonostante la sorte è stata loro alquanto avversa.

Giovanni Boldini era già il simbolo della Belle Epoque, il pittore ferrarese poi trapiantato a Parigi dal 1872 divenne la mecca di qualsiasi avvenente signora desiderosa di lasciare ai posteri l’immagine più elegante e aristocratica di sè stessa e nessuno più di Boldini era adatto a render sulla tela il lusso, lo sfarzo e il dinamismo di questa sfolgorante epoca a cavallo tra l’800 e il ‘900.
Nel 1901 Boldini sbarcò a Palermo non solo per godersi la città simbolo della ricchezza siciliana ma per dipingere una donna considerata la Regina di Sicilia, Donna Franca Florio, nobile di nascita e ricca per matrimonio con l’allora magnate pre-Russia, Ignazio Florio, che aveva affari in tutti i campi, dalle tonnare più belle e attive dell’isola all’editoria.
La coppia viveva nel capolavoro Liberty, il Villino Florio, e fece costruire Villa Igiea, oggi hotel di lusso con l’affaccio direttamente sul porticciolo di Palermo, un luogo che si lega alla storia della famiglia con le vicende, i drammi e la futura decadenza.
Donna Franca vestiva gli abiti di Worth, il primo couturier della storia del costume, realizzati appositamente per lei a Parigi, indossava gioielli meravigliosi e il suo filo di perle aveva come unica rivale la Regina Margherita prima e la Regina Elena dopo, da cui fu peraltro nominata “dama di corte”. Era bellissima ma anche molto infelice a causa delle corna del marito, l’uomo più invidiato del regno.

Donna Franca Florio, Giovanni Boldini
Dettaglio.

Nel 1901 Boldini la dipinge in tutta la sua bellezza, con un lungo filo di perle, un’acconciatura ben curata, gli occhi distratti tra il grigio e un intenso azzurro e un abito che lascia intravedere spalle e caviglie allungate con una scarpa a punta molto moderna. La posa sofisticata e naturale la fa sembrare in procinto di uscire dalla tela e avvicinarsi allo spettatore.
È un’immagine eterna ed eterea che solo le pennellate rapide e sicure di Boldini avrebbero potuto imprimere con tutta la sua bellezza.
L’unico a non essere d’accordo è il marito Ignazio che scrive al pittore che non avrebbe pagato il quadro che considerava impudico e troppo seducente per poterlo esporre, così il ritratto dovette esser rifatto e nella nuova versione del 1903 Donna Franca indossava un abito lungo e nero custodito fino a oggi presso Palazzo Pitti, ed esposto in occasione di una mostra sui suoi abiti nel 1986. La seconda versione venne trafugata dai nazisti durante la seconda guerra mondiale e se ne sono perse completamente le tracce, e la prima versione invece? Rimase nell’atelier parigino di Boldini fino al 1924, anno in cui lo comprò il Barone Rotschild, grande estimatore, ed è per questo che il quadro riporta questa data nonostante fosse stato dipinto più di 20 anni prima.



La versione ora scomparsa del ritratto di Donna Franca Florio.

Donna Franca Florio con l'abito di corte. 

La sorte ha voluto che l’immagine giunta fino a noi di Donna Franca sia quella che desiderava lei e non la gelosia del marito, l’immagine di una donna bellissima, l’incarnazione di un gusto e di un’eleganza ricercata che anticipava la sua presenza in tutto il mondo dell’epoca.
Il quadro si trova a Villa Igiea a Palermo secondo la sua locazione originaria, ora è in mostra a Roma ma sarà battuto all’asta quanto prima, sperando che il suo acquirente abbia il buon cuore di donarlo alla città simbolo della famiglia Florio che tanto fece per la Sicilia.
Vorrei avere io quel milione di euro che serve per custodire per sempre la bellezza di Donna Franca ma ahimé ho la Postepay a tre zeri: 0,00.

Un altro quadro, un’altra donna, un’altra storia, il ritratto di Adele Bloch-Bauer, dipinto da Gustav Klimt nel 1907. Adele era la figlia dell’imprenditore austriaco Maurice Bauer e sposa il Barone Bloch, un ricco industriale dello zucchero nella Vienna dei primi del ‘900. Klimt la dipinge rendendola per sempre l’immagine della femme fatale, con il suo sguardo seducente e quell’oro suggestivo che caratterizzò il periodo di Klimt intorno al 1905-1907.
Adele e il marito decisero che il ritratto e altri tre quadri di Klimt sarebbero stati donati alla Galleria del Belvedere di Vienna dopo la morte di lei ma durante l’occupazione nazista il barone, in quanto ebreo, dovette fuggire in Svizzera per evitare la deportazione e tutti i suoi beni requisiti.


Ritratto di Adele Bloch Bauer, Klimt. 

Così i nazisti riuscirono a esporre il ritratto di Adele alla Galleria del Belvedere e diventò il vero simbolo di Vienna, ammirato nel resto del mondo e simbolo di quel gusto passato alla storia come “Secessione Viennese”.
Ironia della sorte, una donna ebrea la cui famiglia è stata depredata di tutto e perseguitata diventa il simbolo di una città che ha visto nascere e crescere il regime nazista, questo è l’aspetto più assurdo di questa vicenda che si è conclusa nel 2006 quando Maria Altmann, nipote di Adele e del Barone Bauer nonché legittima erede di tutti i suoi avere grazie al testamento siglato nel 1945, decise di intraprendere una dura e lunga battaglia legale contro la Repubblica d’Austria per riavere i quattro quadri di Klimt, in particolare il ritratto di sua zia Adele.
Maria che scappò negli Stati Uniti per sfuggire alla persecuzione degli ebrei, ottenne il diritto di riavere i quadri di Klimt, staccati con grande smacco del destino dalle sale della Galleria del Belvedere di Vienna e portati in America dove furono venduti per 300 milioni di dollari nel 2006, ora il ritratto di Adele Bloch-Bauer è esposto alla Neue Galerie di New York di Lauder, il legittimo proprietario. Per 135 milioni di dollari fu il quadro più costoso al mondo.
(Su questa vicenda è uscito un meraviglioso film “Woman in gold” diretto da Simon Curtis).

Spesso l’arte non è avvolta da lustro e magnificenza come crediamo, spesso l’arte è vittima della sua stessa storia e quel che ci rimane è un’immagine anche crudele di quello che fu.

 
Adele Bloch - Bauer 



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