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Channel: Pezzenti con il Papillon
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COME SCEGLIERE UN ALLOGGIO SU AIRBNB

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Il giardino pensile a Hvar, Croazia.
Nella vita che vorrei mi chiamerei Paris di nome e Hilton di cognome, vestirei solo di rosa e non solo il mercoledì, urlerei “Stop being poor” e sponsorizzerei compresse dissetanti per non inquinare con le bottiglie d’acqua il nostro pianeta.
MA.
Ma mi chiamo Lorenzo di nome e Bises di cognome, combatto calvizie precoci, ho un mutuo di cui forse non vedrò mai la fine, vesto lo stesso di rosa con e il titolo di questo blog è abbastanza evocativo. Si può essere ricchi ma poveri di stile e si può essere poveri ma ricchi di stile, è questa la mia filosofia di vita.
Spesso la ricchezza è sinonimo di uno stile di vita molto esibizionista, vestiti firmati, scarpe da urlo in pelle di daino bianco della Svizzera francese e hotel 5 stelle lusso con cuscini al profumo di mosto selvatico e ciabattine per la doccia in capra albina in via d’estinzione. Soprattutto i viaggi sono l’ago della bilancia del 740 di una persona, perché chi viaggia per il mondo senza un barattolo dei risparmi firmato “Estate 2017” difficilmente potrà capire i sacrifici che si fa per scoprire nuovi orizzonti riuscendo però contemporaneamente a pagare la tassa dei rifiuti, la 15esima (su enne infinite) rata del mutuo, la fibra per googlare ossessivamente “Quanti minuti nell’acqua per uovo sodo”.

La scelta dell'appartamento a Torino è stata influenzata dalla presenza di questo lego gigante a forma di Faraone, ovvio

Noi di questa generazione siamo molto fortunati perché è cambiato il modo di viaggiare e ci si sono aperte frontiere che i nostri genitori nemmeno si sognavano. Prendiamo un volo per Londra come il tram per il Fiordaliso di Rozzano, partiamo improvvisamente per Siviglia e Barcellona solo per mangiare le tapas, organizziamo tour tra Germania Austria e Repubblica Ceca quando fino al 1989 c’era addirittura un muro armato a dividere culture, territori e storie.
Voli Low cost, offerte di ogni genere e l’alloggio?
Da quando 4 anni fa ho scoperto Airbnb le mie prenotazioni le faccio sempre qui per ovvie ragioni, prime tra tutte il prezzo davvero competitivo e le proposte carine e adatte a ogni genere di viaggio. Week end d’amore? Fuga dalla città? Avventura spartana? Airbnb sempre.
Non sono amante delle camere d’albergo in cui è tutto molto asettico e quasi finto, l’atmosfera rarefatta, il caldo soffocante, a meno che non siano quegli alberghi pomposi e storici e allora sono disposto a fare Sissi la principessa bavarese per almeno una settimana.
Su Airbnb le persone mettono online una casa di proprietà disponibile per brevi e lunghi periodi, o anche una stanza e si può andare ovunque nel mondo, senza limiti. Trovo che sia un modo intelligente di fare sharing, offrendo un alloggio vissuto e vivo, personale e non freddo.

Per Mantova invece ho optato per delicati candelabri papali accanto al letto.
Così ci si ritrova in un palazzo affrescato del 1400 a Mantova, in una casetta con giardino nell’isola di Hvar, in una mansarda affacciata sui sottotetti di Praga o in un delizioso residence a Paros. Si possono scegliere tutte le opzioni, dalla camera in un appartamento condiviso alla villa affittata per le vacanze.
Qualche consiglio?
Prima cosa bisogna partire già con quello che si vuole filtrando a priori le proposte, selezionare i servizi necessari (esempio WI-FI, parcheggio, se accettano animali o bambini ecc) e leggere bene le recensioni che sono il reale specchio di quello che vai cercando, si basa tutto sul giudizio di chi è stato e soprattutto di chi tornerebbe anche domani mattina. Le recensioni valgono sia per l’ospitalità e disponibilità dell’host, sia per l’alloggio con criteri che vanno dalla pulizia alla puntualità del check in. Si contatta l’host con un messaggio entusiasta (deve accettare la tua richiesta controllando anche i tuoi feedback) e si inizia a instaurare un primo rapporto telematico con scambio di domande del tipo a che ora arrivi? Hai bisogno che ti venga a prendere? Ecc.

Le colazioni più belle e rilassanti dell'estate 2016 qui a Paros.

Gli host sono sempre molto disponibili ed essendo del luogo sapranno indicarvi angoli segreti e posti meno turistici da visitare, l’anno scorso a Paros grazie alla ragazza che ci ospitava abbiamo passato una meravigliosa vacanza nelle spiagge più isolate lontani da bambini urlanti e italiani con la borsa frigo.
Qui invece i link degli alloggi più carini in cui sono stato negli ultimi tempi:
(Paros non ho trovato il link ma si chiama AROKARIA DREAMS) 
-         MANTOVA

-         FERRARA

-         HVAR

-         TORINO


-        ISOLADEL GIGLIO 


Con Airbnb si trovano queste case meravigliose.


ETERNI SECONDI?

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29 APRILE 2011 UNA DATA CARDINE DELLA MIA VITA.
Alla voce “Eterni secondi” ci sono le foto di tutti quei secondogeniti un po’ oscurati dai loro fratelli che per concepimento e destino forse, apparentemente, sono stati un po’ più fortunati di loro, il che però non è detto.
Consideriamo per esempio il principe Harry, tutti lo danno come “Il secondo”, quello che è stato spodestato dal trono addirittura dal piccolo George, quello un po’ “ribelle” perché abituati dalla figura perfettina del fratello William ma che in realtà è quello che se la spassa più di tutti in quella famiglia che è manipolata dal cerimoniale di Elisabetta.
Harry non ha così tanti obblighi quanto William, non è prossimo a sedere sul trono dell’unica monarchia che davvero interessa a qualcuno e può frequentare un’attrice americana divorziata di 35 anni senza un goccio di sangue blu senza che i cecchini di sua Nonna abbiano già fatto centro.
Ho sempre pensato che i secondogeniti, tra cui io, hanno una marcia in più, perché i genitori sono già genitori e hanno un pochino più di respiro dei primogeniti, se la cavano meglio da soli e riescono nella vita a svignarsela. Meno obblighi e più libertà.
L’esempio lampante è anche Pippa Middleton, la sorella quasi 34 enne della donna più invidiata (per lo zaffiro di Lady D al dito?) e osservata (perché sembra la figlia di Satana tanto è sempre perfetta in tutte le occasioni?) della globosfera: Kate Middleton, moglie di William il duca di Cambridge, secondo in linea di successione al trono d’inghilterra.


Non deve essere facile essere la sorella della moglie di un futuro Re, perché se Lady D era più affine per nascita al ruolo che poi le sarebbe stato stretto, Kate l’ha sudato e se l’è anche meritato, complice la madre che probabilmente sul suo pc aveva una serie di fogli excel per programmare la sua scalata social fino alla conquista della vetta. Ed entrambe ci sono riuscite.
Pippa invece è sempre stata un po’ nell’ombra perché più schiva e riservata fino a quel 29 aprile 2011 quando l’abito bianco di Sarah Burton le fasciava così bene il gluteo che in mondovisione si è scatenato un fischio degno della migliore osteria della Val Brembana.

Diventa così la sorella belculo della moglie del principe William e i rotocalchi non fanno che parlare di lei e la vogliono appioppare al principe Harry senza pensarci nemmeno un attimo, ma i due sembrano solo avere un rapporto di stima e simpatia per l’appartenenza a quella privilegiata stirpe.
Pippa poteva aprire un canale Youtube di esercizi per i glutei, diventare testimonial di costumi da bagno, instagrammer forsennata di selfie soft-porn e invece? Invece è tornata alla sua tranquilla vita inglese e domani, 20 maggio, sposa un “banale” finanziere  James Matthews, inutile dire ricco fino al midollo.
Non ci sono ancora indiscrezioni sull’abito, io scommetto su Jenny Packman ma una cosa è certa, i più belli saranno il piccolo George e la piccola Charlotte.

LA BIBLIOTECA D'ALESSANDRIA (DI MODA E DI COSTUME) A MILANO

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Carmen Dell'Orefice, 1948 (questo lo vado a cercare) 
Milano non finisce mai di sorprenderti e quando più o meno pensi di conoscerla al suo meglio ecco qui l’invito in uno spazio, a una nuova mostra, in un nuovo negozio o in un museo che pensavi di aver visto e invece no è stato ristrutturato ed è come entrarci per la prima volta.
Milano sembra dirti “TAAAAAAAAAAC, BECCATO”.
Si parla tanto di moda e di costume perché 4 volte l’anno siamo subissati di tacchi e macchine della camera della moda, si montano le catwalk in ogni angolo di città, serpeggiano le giornaliste di costume (le poche che ancora non si sono annichilite su un blog) e tutti si improvvisano del settore.
In realtà la moda è un’arte e come tale andrebbe studiata.
Prima di parlare della nuova collezione Missoni non bisognerebbe sapere la storia di come è nata questa maison? Prima di innalzare le mille innovazioni della prossima stagione, non bisognerebbe conoscere come si è arrivati a quelle forme e a quel tessuto?
Come quando Miranda si rivolge nervosamente ad Andy nella celebre scena de Il diavolo veste Prada:



Quello che non sai è che quel maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis, è effettivamente ceruleo, e sei anche allegramente inconsapevole del fatto che nel 2002 Oscar de la Renta ha realizzato una collezione di gonne cerulee e poi è stato Yves Saint Laurent se non sbaglio a proporre delle giacche militari color ceruleo.


E’ oltre un secolo che la moda si evolve in quanto tale e si è arrivati dal considerare un sarto un vero e proprio stilista, un artista capace di plasmare colori forme e geometrie innovando il guardaroba di grandi del nostro tempo.
Certo oggi abbiamo Bella Hadid strapagata per indossare un abito piuttosto che un altro ma la moda è nata anche grazie a grandi socialité che indossavano per amicizia e affetto le creazioni dei couturier, la Marchesa Casati per Poiret, Lou Lou de la Falaise per Yves Saint Laurent o Lady D per Gianni Versace.
La moda e il costume è meravigliosa da studiare anche solo attraverso le immagini, sfogliando un manuale di storia del costume (il mio preferito quello scritto da Enrica Morini) si capisce subito quanto le decadi del novecento siano stati passaggi importanti per lo sviluppo di gonne, abiti, soprabiti, scarpe e cappelli. Tutto si evolve e tutto è direttamente proporzionale alle nostre vite, ai nostri usi e per l’appunto, costumi.

Meravigliosi 


A Milano esiste un angolo in cui tutto questo è possibile grazie a una raccolta di inestimabile valore che conta più di 65 mila volumi (la più grande d’Europa) di riviste, magazine e libri di moda e di costume. La Milano Fashion Libraryè la vostra tana se desiderate approfondire un argomento sfogliando Vogue che risalgono ai primi del Novecento fino ai giorni nostri inoltrandovi in un mondo che si sogna ma che andrebbe studiato di più.
Inoltre si ha la possibilità di consultare l’archivio di tutti i lookbook di tutte le sfilate di tutti gli anni di tutte le maison del mondo, io mi farei rinchiudere e per me possono buttare anche la chiave.

La Milano Fashion Libraryè in via Alessandria 8 e fino al 29 giugno con il codice “MFL20%” avete la possibilità di tesserarvi con uno sconto per un anno intero. 

Vorrei rivedere anche qualche servizio moda di Claudia Schiffer in Chanel anni '90.
Più di 65 mila volumi, un sogno. 

WEEK END A SARZANA: COSA, DOVE, PERCHE'

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Pasticceria Gemmi
La Liguria è per Milano una sorta di colonia e dalla città delle fatture i conquistadores attraversano autostrade e caselli per rilassarsi in quella che è la più piccola e affascinante regione del nostro bel paese. Non sempre i liguri ci amano, al contrario spesso vorrebbero cacciarci come le streghe perché (in effetti) invadiamo spiagge, parcheggi, ristoranti, case e traghetti ma sono ormai più di 70 anni che il milanese corre a “Svernare” in posti che son diventati hinterland milanese.
Prima tra tutti Portofino, poi Santa Margherita, Varazze, Celle Ligure, Chiavari, Lerici e anche Sarzana.

Quest’ultima è ormai una seconda casa Bises da quando i miei genitori si sono innamorati di questo posto in prossimità della Toscana, custodita dalle Cinque Terre e dalle Alpi Apuane, al di qua del passo della Cisa e al di là di una serie di luoghi meravigliosi.
Scappare da una congestionata circonvallazione il venerdì sera per dormire sonoramente in Liguria è un’esperienza indimenticabile e anche due piccoli ma pieni giorni a Sarzana sono un toccasana per recuperare energie e lasciar andare la testa lontano da problemi e ansie lavorative.

Da quando la frequento ho potuto visitare intorno bellezze che non conoscevo, come Pietrasanta, Lerici, Fosdinovo, Carrara, Lucca, Porto Venere, le cave di marmo e anche La Spezia che ho rivalutato nel tempo.
Sarzana è una cittadina con una storia millenaria alle spalle, qui sono nati Papi (no Enrico), sono passati principi e imperatori, hanno costruito le loro eleganti dimore nobili e feudatari che hanno commissionato poi opere d’arte e chiese. L’arte e l’antiquariato infatti sono nel Dna e tra i vicoli si possono scorgere negozietti e restauratori alle prese con mobili dallo stile impero a quello art nouveau, inoltre quasi ogni mese si tiene “La soffitta in strada”, un vero e proprio mercatino dell’antiquariato a cielo aperto dove è possibile trovare di tutto.
Quindi ecco qualche indirizzo che potranno farvi vivere al meglio un delizioso week end in qualsiasi stagione, perché sì, l’aspetto più bello di Sarzana è che è accogliente in qualsiasi momento dell’anno.

Vale la pena visitare Sarzana anche solo per Instagram.

DOVE ALLOGGIARE: ovviamente lo strumento migliore risulta sempre Airbnb trovando soluzioni su misura e per tutte le tasche, più o meno lontane dalla piazza principale ma nulla è irraggiungibile, d’altronde in 10 minuti di piacevole passeggiata ogni angolo è vicino. C’è un adorabile “B&B in piazzetta” dietro la cattedrale che si affaccia su una piccola piazza, da innamorarsi.

DOVE FAR COLAZIONE: non si può andare a Sarzana e non fare colazione da Gemmi, l’istituzione locale per la pasticceria e la caffetteria. Una sala da tè antica con il bancone in legno e grandi specchi, soffitti affrescati e barattoli di bon – bon a tutta parete. Qui si rimane sbalorditi non solo per la bellezza della location ma anche per il conto, a Milano sarebbe impossibile pagare così poco una colazione così buona in un posto simile. Se avete a disposizione due colazioni o fate un richiamino caffè + pasticcino prima del pranzo allora consiglio anche Giubea, i dolci sono sbalorditivi e il personale così gentile che non lasciare la mancia è reato.

DOVE FAR SHOPPING: Sarzana è anche una cittadina molto piacevole e si trovano negozi un po’ per tutto, sia abbigliamento che arredo e calzature, (per non parlare delle boutique con i prodotti tipici liguri). I miei preferiti sono Galax e L’altro Store dove ci sono collezioni uomo-donna molto particolari e con una grande attenzione al dettaglio, in particolare gli accessori sono da capogiro, zaini e borse da tutti i giorni in pelle e cuoio intramontabili. Le vetrine di Galax sono una vera chicca, sempre molto eleganti e con dettagli di arredo d’antiquariato ben assemblati.


La cattedrale 

MUSEI:
passeggiare per la cittadina con i suoi palazzi storici e guardare gli stemmi araldici sopra i portoni e gli atri aperti (soprattutto quando c’è l’edizione Atri fioriti intorno all’ultimo week end di Aprile) è già un po’ attraversare la storia di questo luogo che ha visto varie dominanze e varie fasi di potere, molto interessanti però sono le visite alle due fortezze, i castelli medievali di Firmafede e Sarzanello, esempi di architetture di difesa della zona perfettamente mantenuti.

DOVE FARE L’APERITIVO DELLE 12: se avete già pasteggiato a dolci e non volete rovinarvi il pranzo ma fare un piccolo aperitivo alla ligure allora consiglio il Costituzionale, un bar molto carino sulla piazza principale dove poter prendere un prosecco o uno spritz osservando lo struscio delle persone, noterete così che Sarzana non ha nulla da invidiare a Milano per la concentrazione di sciure ben pettinate, uomini in giacca e ragazze à la mode.

DOVE PRANZARE: non si può andar via da Sarzana senza aver provato le prelibatezze gastronomiche dell’Osteria Boccanegra in particolare le sue focacce sono qualcosa di sublime, mangiate seduti al sole con un tagliere di salumi e un bicchiere di vino della lunigiana, poi sfido chiunque a non sentirne la mancanza quando il lunedì in ufficio vi troverete di fronte la schiscetta con l’insalata. 

IN INVERNO IL TE’, IN ESTATE IL GELATO: qualsiasi sia la stagione Sarzana offre di tutto un po’ e difficile sentirsi rinchiusi causa freddo e pioggia, quindi che sia febbraio o luglio una capatina è sempre un momento piacevole. Per la merenda delle cinque durante il freddo inverno non c’è luogo migliore del Melissa’s tea roomuna piccola sala da tè in stile Ottocento con ritratti d’epoca, divanetti in velluto e servizio di teiere d’argento molto british. Un capolavoro. Se invece capitate con il caldo, magari dopo una gita al mare allora il gelato artigianale in piazzetta da Fior di conosarà quello di cui avevate un forte bisogno.

E LA SERA?: una cena romantica per fare bella figura e per mangiare qualcosa di fresco e delizioso, allora sicuro al ristorante La compagnia dei balenieriche ha anche un giardino interno molto bello e piacevole, fatevi consigliare dal personale perché ci sono dei piatti tipici che magari inizialmente potrebbero non ispirarvi ma poi ringrazierete la curiosità. In giro ci sono molti ristorantini e pub dove bere una cosa facendo due chiacchiere, sono tutti buoni e ce n’è per tutte le tasche, fatevi guidare dall’istinto.

Sarzana è un luogo di pace e tranquillità ma affatto noioso perché ogni settimana e ogni mese c’è qualche iniziativa locale che la rende allegra e ben frequentata, quello che vi renderà triste e malinconici sarà il casello per tornare a casa, provare per credere.





L'AMORE CHE CAMBIO' IL DESTINO DI UNA MONARCHIA

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Vi presento Wallis di Windsor
Siamo nati che lei era lì, i nostri genitori sono nati che lei era lì, sono 65 anni che lei è sul trono più ambito e ammirato del mondo, l’ Inghilterra. Non importa che non si paghino le tasse oltremanica e non si viva a Londra o nelle campagne circostanti, anche noi che abbiamo abolito sei anni prima dell’incoronazione di Queen Elizabeth la monarchia spedendo i Savoia in esilio, viviamo ammirando quella piccola donna che ha scandito il tempo tra cappellini variopinti e grandi passi nella storia.
Quello che spesso dimentichiamo è che non era lei a esser destinata al trono, non era lei la diretta erede di quella corona così difficile da portare e ingarbugliata da gestire.

Quasi un selfie
Elizabeth è nata il 21 aprile del 1926, suo padre era Albert, il secondogenito del Re Giorgio V, era la terza in linea di successione per il trono e non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe toccato a lei guidare la storia del suo paese diventando la regina più longeva del suo paese con un regno che ha superato addirittura quello della sua trisnonna, l’infaticabile Vittoria.
E’stato un amore, grande e immenso, a far tremare Buckingham Palace quando nel 1936 il Re Edoardo VIII (salito al trono il 20 gennaio dello stesso anno in seguito alla morte del padre Giorgio V) decise di abdicare l’11 dicembre, rinunciando così a un grande privilegio per poter sposare Wallis Simpson, una donna che per la famiglia reale  fu la rovina di un paese ma che per lui era tutto il suo mondo.





Niente Cenerentola o Pretty Woman, credo che questa sia l’esemplare favola moderna dello scorso secolo, un amore così desiderato e limpido che ha cambiato il corso della storia dell’Inghilterra tra una velata sofferenza e un’esistenza errante alla ricerca di un angolo di mondo dove esser loro stessi amandosi senza filtri.
Il prezzo da pagare era così alto e così non quantificabile che nessuno avrebbe mai potuto pensare che Edoardo VIII lo facesse davvero, non poteva abdicare per sposare una donna divorziata due volte e senza nemmeno un goccio di sangue blu di quelli che contano, poteva averla come concubina senza alcun problema gli dissero ma lui la voleva con sé, nella sua vita e accanto a un trono che nessuna regina avrebbe potuto colmare.
E invece davanti a tutto il suo regno disse “Dovete credermi quando vi dico che ho trovato impossibile portare il pesante fardello delle mie responsabilità e adempiere ai miei doveri di re, senza l’aiuto e l’appoggio della donna che amo. E voglio che sappiate che la decisione presa è stata mia e mia soltanto”.
Non era una cotta adolescenziale o un colpo di testa di un principe capriccioso che preferiva i piaceri della corona ai doveri di un imperatore, al contrario aveva sempre svolto i suoi obblighi cerimoniali e diplomatici fin da quando fu investito del titolo di Principe di Galles una volta che il padre divenne Re Giorgio V.

SENTI.

Edoardo e Wallis si amavano di un amore profondo, rispettoso e grande come grande è stato il coraggio di una simile decisione che sapeva di salto nel vuoto.
Il giorno dell’abdicazione Wallis risultava ancora sposata e dovettero passare ventidue mesi prima che i due si rincontrassero e ottenuto il divorzio di lei, si potessero sposare lontano da tutti gli affetti inglesi che non accettarono mai la loro relazione.
Vissero insieme tutta una vita passando da un paese all’altro, da una nazione all’altra, lui cercando un posto nel mondo per sentirsi utile alla sua terra natia e lei allontanando lo spettro di un senso di colpa che la attanagliava giorno dopo giorno.



Edoardo aveva rinunciato a tutto per lei, lei se lo meritava davvero? Ci sono stati giorni in cui lui abbia alzato gli occhi al cielo conclamando un “E’ stato un errore”? La risposta sta tutta in quella frase che le bisbigliò dopo aver visto un film sulla loro storia:
“Per tutto quello che ho ricevuto in cambio, ho rinunciato a molto poco”. Quel poco era un trono, quel poco era il “lavoro” che gli fu insegnato da quando era bambino perché il destino di un futuro erede alla corona è qualcosa che si legge nei libri di storia e non dipende da lui ma è un diritto e soprattutto un dovere di nascita.
Vagarono in giro per il mondo tutta la vita, vissero negli Stati Uniti, in Spagna e vennero adottati un po’ dalla Francia che però fu loro sempre un po’ ostile, con quel fare ipocrita ed elitario vennero sempre adulati e beffati, era bello e di prestigio averli come ospiti per un pranzo formale ma chi appoggiò la loro relazione e il loro matrimonio si contava sulle dita di una mano.
Wallis era una donna arguta, intelligente, dinamica e con un grande senso pratico, amava ricevere e teneva a mente gusti e preferenze di ogni ospite che varcava la soglia delle sue residenze, vestiva seguendo un suo stile che subito divenne copiato e ammirato, nel suo guardaroba si contavano soprattutto dei meravigliosi Schiaparelli, Balenciaga e Givenchy ma la sua regola cantava “Pochi capi perfetti alla volta per poi portarli finché non sono proprio andati”.




Edoardo ne era affascinato prima ancora che incantato, quando lei lo cercava lui rispondeva sempre “Eccomi tesoro” e fino alla fine le sue più grandi premure erano destinate a lei, la donna che lo aveva reso felice e capace di rinunciare a tutto.
Lui avrebbe voluto vivere in Inghilterra ma la famiglia reale gli fu sempre ostile, persino la madre non ebbe mai una parola di confronto per quel figlio che sì aveva abdicato rifiutando il ruolo per cui era stato messo al mondo ma che aveva anche dimostrato il più bel coraggio che un uomo potesse avere. Il fratello, il re Giorgio VI, gli voleva bene ma il Governo non gli permetteva di concedere a lui un ruolo istituzionale a corte e a Wallis il titolo di “Altezza Reale”, così seppur Edoardo era invitato ufficialmente alle cerimonie commemorative, non prese mai parte a nessuna di esse perché voleva accanto la moglie a ogni costo.



Non partecipò neppure ai funerali reali, non vennero invitati al matrimonio della nipote preferita, la futura Elisabetta II e neanche all’incoronazione, l’Inghilterra aveva dimenticato e superato il trauma di quell’abdicazione, i Windsor no.
Come sempre è la morte a risolvere situazioni scomode, così quando Edoardo si spense sotto gli occhi vacui e persi di Wallis a Parigi nel maggio del 1972, improvvisamente le si aprirono le porte  di quel bunker che prima era stato inaccessibile per lei e il marito: Buckingham Palace.
Venne ospitata negli appartamenti reali, la Regina Elisabetta le offrì addirittura la sua cameriera personale e le disse che poteva chiedere qualsiasi cosa, poteva avere compagnia se desiderava compagnia o rimaner sola se desiderava rimaner sola avvolta nel suo dolore.
Wallis stremata e attonita fu sempre garbata e cordiale ma al limite delle sue forze, partecipò ai funerali solenni sotto un velo nero e poi partì tornando a Parigi, laddove tutto profumava ancora del suo amore per Edoardo.



Visse a Parigi altri 14 anni senza di lui, nel ricordo di quell’amore totalizzante che in tanti non compresero perché aridi di cuore e ricchi di titoli, Wallis di Windsor, così desiderava esser chiamata, si spense nell’aprile del 1986 lontano dagli occhi famelici della stampa che l’aveva perseguitata per gran parte della sua vita e fu tumulata accanto al marito con il titolo, per ironia della sorte ora concessole, di Duchessa.
Avrebbe potuto diventare l’amante di un potente re d’Inghilterra, avrebbe potuto con furbizia e scaltrezza arrampicarsi sugli specchi dell’altissima società inglese tenendo in pugno addirittura la famiglia reale, ma lei e il suo Edoardo fecero così tutto alla luce del sole nell’ingenuità di quel sentimento che chiamiamo amore.
Un amore così bello ed esemplare che, gossip e contorni da cronaca rosa a parte, sarebbe bello fosse tramandato ai posteri con le parole che Edoardo dedicò a Wallis:
“Vivere con te credo sia stato meglio che avere una corona, uno scettro e un trono”.


Un kleenex, grazie. 

1972.
La regina Elizabeth II apre e dietro di lei Wallis al funerale di Edoardo, 1972

Wallis al funerale di Edoardo nel 1972, dietro di lei, la cognata, la regina madre Elizabeth Bowes Lyon.
Carlo, Diana, Elizabeth II e il principe Filippo al funerale di Wallis, 1986.

VIA MERAVIGLI E CORSO MAGENTA: IL TOUR

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Corso Magenta 12
Tra le cose da scoprire di Milano c’è una sua fetta di torta molto speciale che spesso è un po’ dimenticata nel marasma generale di una grande città dove si pensa sempre che tutto quel che c’è da vedere sia Montenapoleone, lo struscio di San Babila e via della Spiga.
Niente di più sbagliato.

Era da tempo che volevo scrivere questo post ma non potevo farlo prima di aver visto con i miei occhi tutto quello che questa parte di Milano offre.
Via Meravigli e corso Magenta sono due strade, l’una la continuazione dell’altra, che davvero insieme raccontano tutti i passaggi storici e architettonici della nostra bella città e pare che in queste due vie si concentrino bellezze da capogiro in un tour che a parer mio è obbligatorio.
Via Meravigli si dirama a sinistra venendo da Duomo prima di incrociare via Dante, pare una via stretta e buia della vecchia Milano dove pavé e binari del tram amplificano il boato e i rumori del traffico e del passaggio. A parte Spizzico e Tiger subito all’inizio da vedere si trova la bellissima Galleria Meravigli che tutto esprime il lato dell’architettura ferro e vetro che non è solo la Galleria Vittorio Emanuele II. La Galleria Meravigli è un piccolo passaggio elegante e spesso sconosciuto e vuoto che unisce due strade senza la bruttezza di strisce pedonali, semafori e stop.

Palazzo Turati.

Qui si affaccia un carinissimo bistrot e la Fondazione Forma che ospita delle mostre sempre molto interessanti, uno spazio espositivo che rientra in quelli da visitare e da tener sotto controllo durante le stagioni.
Su quello stesso lato di marciapiede c’è poco più avanti l’ingresso del meraviglioso Palazzo Turati, sempre chiuso e sigillato come una cassetta di sicurezza se non in rare occasioni annuali come il Salone del Mobile dove tutti i milanesi si imbottigliano perché è davvero un capolavoro del nostro decorare. Palazzo Turati è sede della Camera di Commercio, è del 1880 ed è la ricostruzione in chiave moderna di un classico palazzo cinquecentesco tra Ferrara e Firenze, un po’ Palazzo dei Diamanti, con affreschi meravigliosi e ampi saloni di rappresentanza. Fu bombardato durante la seconda Guerra Mondiale ma tornò agli splendori ufficiali nel 1954 con gli architetti dello studio Castiglioni.
Poco più avanti il Bar Meravigli, tappa obbligata per uno spuntino veloce e un panino sobrio, i proprietari sono gentilissimi e il servizio molto a modino.
Sull’altro marciapiede poco più avanti ancora c’è la cappelleria Melegari, piccolina e deliziosa, altro non è che la succursale di quella grande e rappresentante che si trova in Paolo Sarpi, vera Mecca per chi ama i cappelli, le bretelle, le velette e tutto quanto sembra inutile ma necessario.

Santa Maria alla Porta.

Qualche passo e finisce via Meravigli, e ci si addentra nello splendido Corso Magenta che è un vero patrimonio a cielo aperto di tradizioni, storia, arte, spettacolo e instagrammabilità.
Subito c’è la Taschen, il negozio dove nessuno riesce a entrare senza desiderare un enorme libreria con tutti i volumi che spaziano dalla fotografia di moda alla storia dell’arte. Tappa obbligata, in particolare per l’ultimo volume “Gli ingressi di Milano” dove sono raccolte le fotografie degli androni più belli tra gli anni ’20 e gli anni ’70.
Poi c’è Marchesi, quella vera, la pasticceria che da oltre 100 anni fa angolo lì, immune da tutte le modernità che avanzano, vero capolavoro di estetica e qualità, fare colazione da Marchesi verso le 10 del mattino attorniati da sciure in visone è una gioia senza limiti.
Lì dietro c’è Santa Maria alla Porta, una piccola chiesetta bombardata durante la guerra che ha causato la distruzione dell’antica cappella circolare, oggi riscoperta e portata alla luce (nel vero senso della parola), che è lì a testimonianza di quante meraviglie sono state portate via per sempre e di quante si attaccano alla sopravvivenza dei posteri. E’ un angolo prezioso, soprattutto per la bellezza di quei marmi.
Consiglio culinario: il piccolo ristorantino “La Brisa”, in via Brisa (lì dietro) ideale per un pranzo chic.


Quella vera. 

Continuando su corso Magenta bisogna poi fare marciapiede e marciapiede perché iniziano una serie di cose immancabili.
Al civico 12 bisogna per forza entrare nel cortile perché alzando gli occhi al cielo si gode di uno spettacolo superlativo, un ottagono perfetto che sovrasta la tua testa e le tue lacrime.
Dall’altra parte del marciapiede invece la cappella Sistina di Milano: San Maurizio, una chiesetta con convento annesso per le suore di clausura che è una meraviglia, tutto affrescato nel Cinquecento, ospita un ciclo di affreschi che vi faranno dimenticare il romanico e il gotico.

Palazzo Litta. 

Da vedere assolutamente l’affresco dell’arca di Noè dove a salire a coppie tra gli animali anche due unicorni deliziosi, perché sì, a Milano abbiamo anche gli unicorni.
Al centro di Corso Magenta poi c’è lui, l’incantevole PALAZZO LITTA, di quei marchesi famosi che si contendevano insieme ai Clerici il tanto desiderato titolo di “Palazzo nobiliare più declamato”, in una gara di stucchi e specchi. Lo scalone principale è un sogno e il bodouir della marchesa Litta è quel salottino che io desidero più di ogni altra cosa al mondo.
(La leggenda dice che c’è anche un fantasma che si aggira per il Palazzo, così per far folclore)
Poco più avanti, all’angolo di corso Magenta e via Carducci c’è lo storico Bar Magenta, un caposaldo universitario di tutti i milanesi della statale che fanno serata il giovedì sera tra panini, birre e karaoke.

La vigna di Leonardo e la Casa degli Atellani.

L’altro pezzo di Corso Magenta, anch’esso degno di nota, è una discesa verso altre fase di Milano, dall’antico quattrocento al razionalismo degli anni ’30.
Al civico 55 una piccola sosta è obbligatoria, soprattutto da quando hanno messo una pietra di inciampo a ricordare il papà di Liliana Segre che in quella casa abitava in tutta la sua serenità prima che le deportazioni la portassero via insieme a Papà Alberto e ai Nonni che non fecero mai ritorno. Liliana è una delle poche sopravvissute alla Shoah e da anni racconta la sua storia, ascoltarla o leggerla è un consiglio spassionato che do a ognuno di voi.
Più avanti si trova la bellissima Santa Maria delle Grazie, famosa perché era lì quando tutto era campagna e quando il Duomo era in lunga costruzione, celebre perché è lì che il genio di Leonardo Da Vinci si esprime con tutta la sua forza ne “Il cenacolo” che si trova nel refettorio della chiesa.

Santa Maria delle Grazie. 

Uno dei luoghi più complicati da vedere a Milano perché blindato e gettonatissimo, ma credo che ammirarlo nella sua luce più naturale sia un dovere per tutti noi.
Dall’altro lato del marciapiede in un susseguirsi meraviglioso abbiamo “Palazzo delle Stelline” che è una fondazione che ospita delle mostre e delle temporanee molto interessanti che spaziano dall’arte antica alla contemporanea, poi subito dopo la meravigliosa Vigna di Leonardo.
Un appezzamento di terra donato da Ludovico il Moro nel 1498 a Leonardo da Vinci che da qualche anno era pittore della sua corte, la vigna si affianca al giardino della casa degli Atellani, aristocratici milanesi del ‘400 che avevano trasformato qui la loro dimora in una suntuosa residenza. E’ uno spettacolo vero.
La Casa degli Atellani è un contenitore, infatti al suo interno c’è anche lo storico appartamento di Piero Portaluppi, l’architetto che ha regalato a Milano meravigliose testimonianze del razionalismo anni ’30 come Villa Necchi e la casa Boschi di Stefano, è visitabile durante certi periodi dell’anno ed è come rendere omaggio al Palladio a Vicenza, OBBLIGATORIO.

In questo lungo cammino fino a Corso Vercelli ammirerete una Milano ricca di storia, cultura, costume e leggende e se ve ne innamorerete ancora di più allora sono riuscito nel mio intento. 

IL (MIO) LIBRO DEI NOMI

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Laudomia Del Drago Hercolani, detta DOMIETTA, quando un nome bellissimo ha un nomignolo ancora più bello.

C’è un particolare delle nostre vite che sopravvive a qualsiasi tempo e che ci appartiene davvero per sempre e non è quel brutto tatuaggio tribale voluto fortemente a 18 anni e nascosto a 27, ma il nostro nome.
Riflettiamoci, niente è più imperituro di un nome scritto sui nostri documenti, riecheggiato in tutte le salse in tutti gli anni della nostra vita e ricordato anche più avanti, negli almanacchi della nostra famiglia e nelle storie che si tramandano di generazione in generazione.
Quando si sceglie un nome quello è per sempre e dobbiamo ricordarcelo, non è un capriccio o una moda ma un segno indelebile di ognuno di noi, qualcosa che ci distingue dagli altri perché unico, come fosse un’impronta digitale.
A mio parere scegliere un nome è così difficile che ci vorrebbero delle regole ferree o dei consigli calzanti.
      
       - Scandagliare i propri alberi genealogici perché di nomi belli ce ne sono e se sono di famiglia ancora di più.
Della mia famiglia per esempio amo i nomi femminili Gilda (la bisnonna indiamantata), Costanza, (l’elegantissima proprozia) ma soprattutto quello delle mie prozie milanesi a cui ero molto affezionato, la Maria Giuditta (soprannominata Cicita) e la Ebe che da piccolo storpiavo in Bebe. Tra quelli maschili si parla sempre del prozio Ulrico, del bisnonno materno Oreste e di quello paterno Carlo Alberto.

- Scegliere tra personaggi storici che ci hanno colpito, nomi di re e regine, principi e principesse che han fatto la storia, culturale o di glamour.
Come Elisabetta (Sissi), Caterina (la Grande), Maria Teresa, Ludovica, Maria Sofia, Francesco, Diana, Edoardo, Filippo o Massimiliano.

- Il nome di qualcuno che ha una forte valenza positiva nella vostra vita.

- L’assonanza con il cognome, quello è fondamentale perché un nome e un cognome sono come il giorno e la notte, sono diversi ma vivono sempre l’uno in funzione dell’altro. 

Io sono fortunato, Lorenzo Bises, un nome semplice e storicamente importante, sposatosi alla perfezione (sì lo dico) con un cognome particolare di cui vado fiero per musicalità non solo alla francese (Non si pronuncia Bisé ma come si legge Bises)
Ho già deciso e tutti lo sanno che se dovessi avere una bambina la chiamerei Maria Vittoria che è il nome che più preferisco al mondo, insieme a Filippo se fosse un maschietto.
Siccome però al momento è un’ipotesi più che lontana scrivo qui un elenco dei nomi che mi piacciono molto e che per storia, cultura o affetto mi hanno colpito, chissà che qualcuno di voi lo usi per fare una cernita e sceglierlo per i vostri figli.  

Se fosse una bambina:
Alberica, Laudomia, Ada, Agnese, Adele, Vittoria, Ottavia, Alberta, Lavinia, Ginevra, Nicoletta, Ortensia, Maria Sofia, Clio, Cloe, Elda, Delia, Tea, Olivia, Olimpia, Matilde, Maria Cristina, Oriana, Bice, Fedora, Rosa, Margherita, Onelia, Sveva, Maria Chiara, Allegra, Clara, Bianca, Camilla, Beatrice, Eugenia, Lea, Anna, Umberta, Iole, Stella, Emma, Virginia, Clotilde, Aldea, Altea, Carlotta, Camilla, Isabella, Olga, Egle, Maria Amelia, Amalia, Lia.

Se fosse un bambino:
Leone, Sebastiano, Edoardo, Carlo, Guglielmo, Riccardo, Stefano, Tommaso, Enrico, Alessandro, Mattia, Matteo, Pietro, Filiberto, Umberto, Vittorio, Niccolò, Diego, Leonardo, Giacomo, Ernesto, Leopoldo.
Non sono un amante dei nomi composti se non con l’accompagnato Maria ma dipende sempre dal cognome che porterà, come non amo i nomi stranieri se dati solo per moda e per “elevarsi” al tono internazionale seppur si viva in Italia con un cognome tipicamente italiano, “Marie Rose Brambilla” o “Grace Esposito”, per esempio.


Un altro aspetto fondamentale sono i soprannomi che spesso sono le versioni accorciate dei nostri nomi, Enri, Lore, Sofi, Chia, Cri, Vero, Roby, Cla, Sere, mentre impazzisco per quei nomignoli affettuosi che diventano ancora più belli quando si invecchia e, qui spezzo una lancia a nostro favore, quando al nord il nome si accompagna dell’articolo la-il.

La Pucci, la Ducci, la Lilli, la Ninetta, la Domi, la Domietta, la Trilli, la Lalli, la Iucci, la Lia, la Stelli, la Svevi, la Mimì, la Pupi, la Titina, la Titti, la Nunny, la Sisina, ti immagini subito un gruppo di anziane signore amiche da una vita che bevono un campari e vengono postate su sciuragram.

Su Twitter in tanti mi hanno scritto i nomi più particolari della loro famiglia ma quello che è emerso è che seppur non siano nomi che daremmo ai nostri eventuali figli hanno un ricordo bellissimo che si conserva negli anni:

Giusto, Oriano, Barnaba, Arcadio, Adelio, Serafino, Maria Dirce, Reana, Nerina, Casimiro, Romilda, Eufrosina, Nadea, Assunta Zorama, Ginista, Vinicio, Dorino e Dorina, Enni, Afra, Amos, Attilia, Washington detto Vasinto, Elide, Iride, Andalusa, Temide (perché sbagliato all’anagrafe doveva essere Artemide), Aldeconda, Meonia, Fariliana, Valleverdina, Cono o i fratelli Ostiglio, Odiglio, Oviglio, Ofelia, Onelia e Odorico, per non parlare di Zanila (“Non esce nemmeno su google” –cit.), i fratelli Rivo, Luzio, Nario e poi Anthos Fosco (come la brigata partigiana del padre), i fratelli Saetta e Fulmine (giuro), Prosdocimo, Santo Fuoco, Trina, Biondina, Zerilli, Aligi,Cremonda, Giselda, Salea, Aniceto, Stenio, Giauro, Libanio e poi lui Vittoria Armando Piave Maria Pacifico in un colpo solo. Abbiamo anche Genesio, Oriente, Azzo, Zaira, Ricconovalda, Provvidenza detta Provida, Demetrio, Reghino, Gandolfo, Antioca, Befana (nata il 6 gennaio), Serafinangelo, Maggiorino, Foresta, Bachisio, Arpalice e infine due fratelli Romeo e Giulietta e un amante dell’opera, Remenescildo, che chiamò i suoi figli: Oingrin, Ferrer, Giustina e Ida.


Scegliere un nome per una persona a cui vorrete bene per il resto della vostra vita è un passo decisivo, siatene consapevoli e fate del vostro meglio per non render loro la vita già impossibile a partire dal “Mi chiamo…”, ve ne saranno sempre grati. 

LA SCIURA MILANESE

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Santo Patrono di tutte le sciure milanesi, Camilla Cederna. 
Ormai è chiaro che il personaggio chiave di questo 2017 sia quella fu gentil donzella che zompetta per Milano e che da tutti viene identificata come “sciura” (Signora in dialetto) anche grazie a un profilo Instagram molto seguito che ne elogia gli aspetti più plateali. Ma chi è la sciura? E cosa rende sciurauna milanese che passeggia indisturbata nel suo shopping mattutino? Qui qualche indizio per render omaggio a una categoria in via d’estinzione che abbiamo tutti molto a cuore in questa nostra amata città.
Partiamo da due presupposti, la sciuraè milanese perché è qui che nasce cresce e si abbevera in quella fonte di stile e buon gusto, per storia e per tradizioni di famiglia, inoltre la sciuraè ignara di essere tale perché è un allure inconsapevole e spontaneo, non un atteggiamento studiato a tavolino o forzato.

Sciura si nasce.

Il quartier generale della sciuraè via Vincenzo Monti, sotto quel viale che si inerpica da Cadorna fino a Largo V Alpini si ripara all’ombra del filare degli alberi che svettano a sottolineare la bellezza dei piani alti di palazzi fine Ottocento con eleganti ingressi in ferro battuto e stucchi rivisitati. La vecchia e nobile Milano è tutta lì, lungo via XX settembre, via Ariosto, via Leopardi, una zona che la sciura milanese conosce bene perché scenografia della sua infanzia quando i tram sfrecciavano già e le periferie erano solo mondi leggendari e lontani.

La sciura prende l’1 e si gode lo scricchiolio dei sedili in legno e si ricorda quando da bambina chiedeva “Perché c’è scritto vietato sputare?” e salutava il signore che vendeva i biglietti seduto alla sua postazione, ora mantenuta per bellezza o addirittura smantellata.

Nata tra gli anni ’20 e i ’30 figlia di qualche industriale, ferro acciaio?, e di un’esponente di qualche elegante e in vista famiglia milanese, ha frequentato ottime scuole,  Orsoline San Carlo?, per poi seguire certi dettami rigidi d’etichetta per cui “Un buon matrimonio e via sulle ali della classe agiata” nel fiore degli anni ’50 tra ampie gonne e velette.

Il marito? Un avvocato, un ingegnere, un architetto, un notaio, un industriale del tessile o un bell’ammiraglio della Marina. La casa? Un quarto piano stabile signorile d’epoca (la sciura ama il Liberty, sogna lo stile umbertino ma impazzisce per il razionalismo anni ’30 con ampi androni, luccicanti corrimano in ottone e marmi intarsiati a terra) con servizio di portineria che saluta al mattino e le chiama l’ascensore non appena la vede in lontananza tornare dalle commissioni.

Le sue zone preferite? Crocetta, Porta Romana, Corso XXII marzo, Corso Venezia, via Sant’Andrea, Foro Bonaparte e immancabilmente Brera tra strette viuzze e botteghe storiche.
La sciura veste sartoriale, predilige gonne e giacche coordinate, non è una fanatica della moda ma ama gli accessori e stagione dopo stagione snocciola al polso Hermes, Chanel in vitello e Gucci in lucertola e fibbia gioiello, regali di suoceri amorevoli prima e di mariti giramondo dopo, soprattutto negli anni ’80 quando si portava con disinvoltura tutto un prezioso guardaroba. Mezzo tacco elegante e comodo, (Ferragamo?) o acquistato da fedeli esercizi commerciali che da sempre vestono i passi d’allure delle sciure, quali Gallon e De Martini. Non manca di veletta ai funerali e di cappello ai matrimoni, impazzisce per i foulard in seta e gli occhiali vintage sono la sua passione, come i guanti che non toglie quando si arrampica sul tram. La pelliccia? Solo dopo il 7 dicembre, astrakan di giorno e visone miele quando cala il sole.


I gioielli? Di famiglia. Stretta la fede, accompagnata da un paio di carati di fidanzamento, immancabili le perle e un anellino da nulla che fu di sua Nonna, magari un opaco zaffiro e uno spento diamante giallo che però fa sempre la sua figura per l’intarsio liberty dei dettagli.
No Rolex ma piccoli Cartier, no bracciali paccottiglia ma un serpente Bulgari sfoggiato all’occasione previo ritiro dalla cassetta di sicurezza, no medaglie preziose ma qualche pietra colorata d’estate e una collanina ricordo del padre per ogni stagione.  

In casa? Vestaglia di seta, camicia da notte con liseuse che fu del corredo, biancheria letto e bagno scelta da Telerie Spadari insieme alle stoffe per tende, divani e cuscini a rigoni per la casa di Santa Margherita Ligure.

La sciura non va dalla parrucchiera ma dalla pettinatrice, non indossa il cappotto ma il paltò, non prende la metropolitana ma il metrò, detesta le pubblicità ma tollera le réclame, non cammina ma volteggia, non ha fretta ma è leggiadra.
Il cane? Se maritata allora un cane di tutto rispetto come il levriero, meglio se afghano, se invece ahimè è vedova allora una piccola taglia o un frizzante cocker miele da intonare ai visoni.

I libri? Ama i gialli soprattutto Camilleri, Agatha Christie e Miss Marple ma ogni tanto si perde nelle storie dei romanzi di Dacia Maraini, Sveva Casati Modigliani e Isabella Bossi Fedrigotti, la sua scrittrice preferita? Jane Austen.
Vacanze? D’estate a Santa Margherita, Rapallo, Sanremo, Varazze, Lerici e Sestri Levante, d’inverno a Cortina, Gstaad e Courmayeur.
La sciura riceve in casa per il tè e organizza cene in famiglia con amici e parenti, ha personale di servizio in regola con contratto e divisa acquistata da Casa del bianco o Siti confezioni, tratta con grande referenza e stima la domestica e dà del lei al portiere aggiornandosi sui suoi figli e nipoti.
Cortese e rilassata, educatissima e signorile ovunque vada, ringrazia quando le cedono il posto a sedere sul tram, sorride alla commessa garbata, entra in una boutique con “Buongiorno” o “Buonasera” e se ne va sulle note di un “Arrivederci”.

La sciura accetta il tempo che scorre imperturbabile e sa che il ritmo delle vite attorno a lei è veloce, ma è sempre curiosa e informata e ci tiene all’immagine che avranno di lei i suoi cari quando non ci sarà più, molto probabilmente ha già scelto la foto per la sua tomba, di famiglia al Monumentale, ca va sans dire.

Ciò che rende distinguibile una vera sciuramilanese non è tanto l’albero genealogico, la borsa firmata o l’introvabile profumo francese che da 50 anni si spruzza in due gocce ogni mattina ma è il savoir faire che non si acquista e non si studia. L’eleganza disinvolta e quel “saper stare al mondo” nonostante i suoi tempi non siano questi, è questo il suo più grande segreto. 

GIANNI VERSACE: 20 ANNI DOPO

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Gianni Versace, 1947-1997
Era l’estate del 1997 e non avevo compiuto 10 anni, come spesso accadeva a Luglio andavo a Vallombrosa in Toscana dalla Nonna e dal Nonno che scandivano i loro tempi tra una passeggiata, il riposino del pomeriggio e l’ispettore Derrick del lunedì sera con noi nipoti che ci inventavamo qualsiasi gioco per arrivare a fine giornata.
Mi ricordo due momenti precisi di quell’estate, il 15 luglio quando appresi dal telegiornale della morte di Gianni Versace e il 31 agosto quando la signora che affittava un appartamento del nostro villino, la signora Grazzini di Firenze, si affacciò dicendo che era morta Lady D.

Che cosa sono state quelle due notizie per un bambino di 9 anni? Non me lo so spiegare, ero incuriosito e incredulo, non conoscevo il male del mondo e non sapevo nello specifico l’entità di questi due personaggi ma me lo ricordo bene.
Gianni Versace fu assassinato il 15 luglio del 1997 sulla scalinata della sua villa di Miami da Andrew Cunanon, un tossicodipendente omosessuale che si prostituiva ed era noto alle autorità per altri omicidi, venne trovato morto dieci giorni dopo suicidatosi con la stessa pistola che aveva usato per freddare Gianni.

Gianni e le top model degli anni '90.
Ricordo la notizia del Tg2 con quei sottotitoli in rosso, le immagini della scala bianca e candida, il lenzuolo che copriva il cadavere e l’enorme sgomento di tutti, Nonni compresi che conoscevano bene la storia dell’ascesa di Versace.
Risuonava poi in tutti i salotti quella parola “Omosessualità”, con cui si avvicendava la vita dello stilista e del suo carnefice come se fosse lo sfondo perverso di una conseguenza, come fosse colpa di una brutta frequentazione e un losco giro di affari sesso potere e soldi.
In realtà non era così, Gianni Versace si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato e il suo assassino era un pazzo armato che non venne fermato prima di commettere altri reati.




Così il mondo della moda e non solo si chiuse in uno strettissimo lutto e i funerali di Gianni Versace furono organizzati nel Duomo di Milano, tra quelle panche piansero il loro grande amico personaggi dal calibro di Elton John, Lady Diana e Naomi Campbell, amici e compagni di percorso di quell’ascesa che in pochi possono sognare
Gianni Versace nasce a Reggio Calabria nel 1947, sua madre era una sarta e da lei viene iniziato al mestiere che lo renderà celebre, nel 1972 si trasferisce a Milano e sei anni dopo si esibisce con una sua collezione al Palazzo della Permanente, era il 1978 e da quel momento nasce l’omonima maison.
Santo, Donatella e Gianni Versace.
Donatella, la figlia Allegra e Gianni Versace. 
Donatella Versace, quanto era bella. 

Il successo viene condiviso in famiglia e i suoi due fratelli Santo e Donatella diventano i pilastri di una sfolgorante carriera e di uno stile molto riconoscibile che ha caratterizzato gli anni ’80 e i ’90.

Senza Gianni Versace quel decennio non sarebbe stato lo stesso perché lui è riuscito ad amalgamare il gusto dell’epoca attraverso un trio esplosivo: gli abiti più celebrativi, le top model più famose del mondo e i fotografi di moda più ricercati.
Campagne pubblicitarie di Richard Avedon, Steven Meisel e Bruce Weber per cui posano divinità come Naomi Campbell, Cindy Crawford, Linda Evangelista, Claudia Schiffer, Christy Turlington ed Helena Christensen.
Riuscite a immaginare il background in cui si è mosso agevolmente Gianni Versace senza nascere in una famiglia bene dell’industria moda e delle capacità incredibili che ha avuto per arrivare a calcare l’olimpo con tale disinvoltura?


Gianni Versace e il suo compagno, Antonio D'Amico.

Ha dato vita a uno stile molto eccentrico e al limite con il lusso ostentato che personalmente non amo ma è da riconoscergli il genio di aver inventato una multicolor sequenza di tessuti e cromie che prima potevano essere considerati un madornale errore.
Tra meduse, zebrati, pitonati e fantasie barocche lo stile Versace ha vestito celebrità di tutto il jet set internazionale tra cui Madonna, JLo, Lady Gaga e una incredibile Lady D in un abito ricamato con sottile spalline che ha indossato per la copertina di Herper’s Bazaar nel 1991 (il servizio fu pubblicato solo 3 mesi dopo la sua scomparsa, nel 1997).

Quell’abito 24 anni dopo, nel 2005, fu battuto all’asta per 200 mila dollari.

La moda non è solo una proiezione verso un futuro lontano e strabiliante ma anche una riflessione su persone che hanno posato le fondamenta di usi e costumi ancora in voga oggi, di stilisti grazie ai quali abbiamo un importante lascito: un patrimonio di immagini e abiti che hanno fatto la storia della moda. 


Naomi Campbell
LA STORIA.


MONARCHIA CHE VAI, GIOIELLI CHE TROVI

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Ossessione gioielli since 1987, presente!
Tutto quello che sbrilluccica risplende ed è costoso o ereditato a me piace ed è per questo che quando Kate da anziana getta il Cuore dell’Oceano nell’Atlantico oltre a urlarle cretina avrei voluto staccare la poltrona del cinema e scagliarla contro quelli che sostenevano fosse un gesto romantico.
Crescendo il mondo del gioiello è diventato anche il mio lavoro e ci sguazzo come una sirena in una baia silenziosa, è il mio ambiente.
L’ossessione dei gioielli però incontra un’altra ossessione, ovvero le teste coronate.
Visite di Stato, incoronazioni e matrimoni reali fanno uscire dalle cassette di sicurezza zaffiri e piogge di diamanti in un turbinio di emozioni che vanno dalla gioia forsennata all’isteria, di questi appuntamenti mondani e anche un po’ desueti se vogliamo mi piace l’aspetto storico e il senso di tradizione mista etichetta ancora molto rigorosa anche nel XXI secolo.
Ecco qui qualche esempio di monarchie che possono vantare gioielli davvero incredibili tra corone e tiare.

I BORBONE DI SPAGNA:
la Regina di Spagna, ex giornalista, un po’ la Lilli Gruber della penisola iberica ha il privilegio di indossare sulla sua testa ben acconciata qualche chilo di carati con una tale disinvoltura che ci fa quasi rabbia ma si sa, lo stile non si compra al mercato.

La tiara dei gigli: è il gioiello più prezioso di tutta la collezione dei Borboni di Spagna e la Regina Sofia l’ha dovuta cedere a Letizia, è stata realizzata nel 1906 su commissione di Alfonso XIII per regalarla alla fortunata consorte Vittoria Eugenia. E’ una tiara che disegna 3 meravigliosi gigli con diamanti taglio cuscino e platino. Una cosuccia. Letizia l’ha indossata qualche settimana fa durante la visita ufficiale ai reali inglesi, un segno di grande rispetto e un tocco di narcisismo spagnolo verso Elizabeth II che non è di certo una regina di primo pelo come Letizia.

Letizia di Spagna in visita ufficiale dalla Queen Elizabeth indossa la tiara dei gigli. 

La tiara prussiana
: la mia preferita in assoluto per quel dettaglio del diamante centrale a goccia e perché ricorda un po’ quella di Anastasia e La bella addormentata nel bosco, è più piccola e meno appariscente ma il disegno stile impero in voga nei gioielli d’epoca Liberty è qualcosa di meraviglioso. Realizzata nel 1913 su commissione del Kaiser Gugliemo II finì in Spagna per la strana genealogia che ha portato la Regina Sofia a sedere sul trono. Letizia la indossò per il suo matrimonio ed era radiosa.

Letizia Ortiz al suo matrimonio con la tiara prussiana.

La tiara Cartier:
partiamo dal presupposto che se fai parte di una casa reale è impossibile che tu non abbia nel cassetto un gioiello di Cartier degli anni ’20, quelli sono i veri gioielli sotto tutti i punti di vista. Taglio baguette, bracciali splendenti o come in questo caso una tiara di diamanti e perle che fu commissionata dalla Regina Vittoria Eugenia per indossare qualcosa di leggero e poco impegnativo. Beh direi che il risultato non è propriamente disimpegnato ma è uno splendore.

Sofia di Spagna con la tiara Cartier. 
Vittoria Eugenia di Spagna con la sua tiara di Cartier negli anni '50.


ELIZABETH II e famiglia:
nessuno mette in un angolo Elizabeth II che alla veneranda età di 91 anni ancora indossa splendidi gioielli delle sue due collezioni, quella ufficiale della monarchia che per legge inglese deve essere indossata solo entro i confini del Regno Unito, diversamente dai gioielli personali che possono espatriare e possono passare agli eredi come regali di nozze.

La tiara Kokonshnik: non è solo il nome a far capire l’origine di una simile meraviglia orafa, una sorta di raggiera di 468 diamanti che si appoggia senza appesantire troppo la testa della Regina, ma è anche il gusto che rimanda subito all’alta gioielleria russa. Fu un dono alla futura Regina Alexandra d’Inghilterra nel 1888 per le sue nozze d’argento con il futuro Edoardo VII, il disegno si ispirava alla tiara indossata dalla sorella di Alexandra, Maria di Russia, consorte dello Zar Alessandro III. Questa tiara alla morte di Alexandra passò a sua nuora, Mary Teck consorte di Giorgio V, che decise di non lasciarla a sua volta alla nuora, Elizabeth Bowes Lyon ma a sua nipote, già Elizabeth II dal 1952. E’ una delle sue preferite per le visite ufficiali in giro per il mondo, l’aveva addirittura nel maggio del 1961 davanti a Papa Giovanni XXIII, a reggere una meravigliosa mantillas di pizzo nero.

Queen Alexandra di Danimarca con la tiara kokosnik.
Queen Elizabeth II. 

La tiara dei nodi d’amore: neanche a dirlo è la mia preferita per questo nome da potere di Sailor Venus (catena dell’amore di Venere AZIONEEEEE) e per le teste che ha potuto far brillare sotto i suoi archi di diamanti coronati da perle grosse come noci. La lovers knot tiaraè il desiderio di una nipote, Mary di Teck, di indossare il gioiello di sua Nonna, la duchessa di Cambridge ma senza poterlo realizzare. La tiara originale, realizzata nel 1818 e indossata dalla Nonna della Regina Mary, Augusta di Hesse per l’incoronazione di sua nipote la Regina Vittoria, infatti è un bene della famiglia Mecklemburg-Strelitz e lì rimane fino a quando nel 1981 viene battuta all’asta da Christie’s. La versione inglese è commissionata dalla nostalgica Mary al gran gioielliere della casa reale, Garrard, nel 1913 ed è così moderna che è possibile smontarla per abbellire ancora di più fili di perle e abiti da gala. Elizabeth II non la indossò molto ma divenne il gioiello di Lady D, indossato nel 1981 (coincidenza?) con grande charme fino ad apparire nel 2015 sulla chioma ben pettinata di Kate Middleton che dalla suocera impara e segue i passi di stile.

Lady D con la tiara dei nodi d'amore.

Kate Middleton indossa la tiara della famiglia Windsor.

La tiara delle ragazze di Gran Bretagna e Irlanda
: questo gioiello dal nome così carino è un regalo realizzato nel 1893 per l’allora principessa Mary da parte di tutte le ragazze del Regno Unito e Irlanda consegnato da una speciale delegazione con a capo una Lady incaricata appositamente. La Regina Mary ancora una volta non la consegnò a sua nuora ma alla nipote Elizabeth nel 1947 quando si sposò con il principe Filippo. Sarà che è una tiara dall’incredibile taglio delle pietre ma Elizabeth l’ha indossata molte volte durante le visite di Stato e addirittura per i ritratti ufficiale della casa reale.

Queen Elisabeth con la tiara delle ragazze della Gran Bretagna e dell'Irlanda.

I SAVOIA:
anche l’ex casa regnante italiana non era da meno in quanto a gioielli che ancora sono oggetto di dispute infinite su eredità e proprietà, Stato Italiano o lusso degli eredi di casa Savoia? Per ora sono custoditi da Bancaitalia e Maria Gabriella di Savoia ha raccolto i pezzi più belli in un volume che ne ripercorre la storia attraverso le immagini di chi li indossò, come le Regine sabaude.

Regina Margherita: la chiamavano la Regina delle perle perché nessuna donna le amava e le indossava come lei, il suo filo toccava a terra, ci si poteva avvolgere e contava qualcosa come 680 perle. Margherita sposò Umberto I di Savoia con cui si fidanzò dopo che la futura prescelta, Matilde d’Asburgo, prese fuoco con il suo abito in tulle a causa di una sigaretta che stava nascondendo dall’istitutrice, un presagio alquanto funesto per tutti. Elegante, colta e perfettamente à la page con tutte le teste coronate d’Europa fu un’amatissima Regina che diede lustro alla neo-monarchia italiana. Per lei la gioielleria Musy di Torino (ancora esistente) realizzò una splendida tiara a volute con diamanti, al centro delle quali c’erano delle margherite con splendide perle. L’ha indossata tempo fa anche Marina Doria ma direi che l’effetto non è per nulla lo stesso.

La tiara della Regina Margherita di Savoia.
Margherita di Savoia con indosso la tiara.

Regina Elena
: molto più schiva, semplice e riservata della suocera Margherita, Elena indossa i gioielli solo nelle occasioni più mondane e per i ritratti di corte stampati in grande quantità per ricavarne poi anche offerte benefiche. In particolare indossa una corona di diamanti e perle molto fastosa ma si nota quanto in realtà il suo gusto fosse molto più semplice, la Regina fece smontare l’infinito filo di perle della Regina Margherita dividendolo per le figlie Iolanda , Mafalda, Giovanna e Francesca. La Regina Elena esiliata insieme al marito Vittorio Emanuele III si spegnerà nel 1952 in Francia, a Montpellier lontano da rappresentazioni monarchiche e fasti regali.

La regina Elena del Montenegro. 

Maria Josè: figlia del re del Belgio sposa nel 1930 il principe Umberto di Savoia con un abito alla moda disegnato da lui in persona, si innamora dell’Italia ma sarà ben presto destinata all’esilio dopo che il 2 giugno 1946 il popolo unanime decide che la monarchia è giunta al tramonto. Così la “Regina di Maggio” vivrà oltre confine spegnendosi nel 2001 all’età di 94 anni. Non era una grande amante dei gioielli elaborati e vistosi, preferiva un filo di perle e semplici orecchini, non ebbe nemmeno modo di usufruire troppo dei gioielli ufficiali della Corona indossati solo in occasioni di rigida etichetta tra cui il matrimonio e l’incoronazione. Indossò il diadema della Regina Margherita modificando l’appoggio della testa a mo’ di bandeau in puro stile anni ’30 e in un bellissimo ritratto indossa un paio di orecchini pendenti della gioielleria Chiappe di Genova con splendidi diamanti a goccia (intercambiabili con delle perle) in un disegno a volute floreali. E’ probabile che quegli stessi diamanti fossero stati dono della madre di Margherita, la duchessa madre di Genova e ancor prima da Elisabetta di Prussia.

Maria Josè con la tiara che fu della Regina Margherita.
Maria Josè con gli orecchini della gioielleria Chiappe di Genova (in questa versione con le perle, nella foto precedente nella versione originale con due splendidi diamanti a goccia) 

Attraverso il gioiello si ripercorrono non solo i fasti e le antiche glorie di casate, alcune delle quali resistono al passaggio del tempo moderno, ma si fa un vero e proprio salto nel gusto e nello stile di epoche affascinanti, tra beghe ereditarie e aste imponenti, nella speranza che si possano conservare patrimoni inestimabili per raffinatezza e fattura.







BALI E LE ISOLE GILI

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D'altronde uno il viaggio lo fa anche per il proprio feed di Instagram, no? 
Non c’è nulla di più costruttivo, sensato e sospirato di un viaggio, di quelli importanti che non ti permetti nemmeno di sognare perché ti sembra irraggiungibile, di quelli che non sai cosa ti aspetta perché sono luoghi per cultura e paesaggio molto diversi dal tuo angolino protettivo di mondo.
Sono sempre stato più europeo che internazionale, il classico che si chiede perché andare in Madagascar se non si è mai visto le Cinque Terre o le nostre preziose città come Lucca, Verona, Mantova e Urbino. L’Italia è il più bel paese del mondo, ne sono più che consapevole, ma attraversare fusiorari, sorvolare continenti di cui spesso ci dimentichiamo e immergersi in un’atmosfera diversa è un arricchimento totalizzante.
Così quest’estate niente isoletta nell’Egeo, niente scogli in una vicina Croazia o niente tour della Sicilia, quest’anno ho preso un volo addirittura intercontinentale fino a Bali, che non è in Thailandia come ho scoperto il giorno prima di partire, bensì in Indonesia.
Inutile dirvi quanto mi ha emozionato questo viaggio e quanto questa piccola guida potrà solo ripercorrere in piccola parte il bagaglio di sapori, colori e felicità vissute in questa avventura.
Se poi volete immergervi per curiosità nei luoghi che ho visitato su INSTAGRAM trovate il geotag e la gallery aggiornata con i posti più belli.

Le risaie di Ubud

BALI è un’isola dell’Indonesia ma non immaginatevi un’isoletta da girare in poche ore, al contrario è gigantesca, molto abitata e anche turistica dopo il boom della moda zen / yoga degli anni ’70 ripresa poi più recentemente grazie al film “Mangia prega ama” con Julia Roberts, visione che consiglio sull’aereo così da entrare un po’ in atmosfera.
Ho viaggiato con la Qatar Airways da Milano Malpensa, scalo a Doha in Qatar e arrivo a Bali Denpasar, nella parte sud dell’isola, per un totale di 15 ore circa e 6 fusiorari in avanti rispetto all’Italia.
Abbiamo scelto come meta Ubud che è un po’ il centro più turistico e interessante di Bali perché da qui partono escursioni di vario genere, non è lontanissimo dal mare e si trovano degli alloggi meravigliosi adatti a tutte le esigenze.
La nostra sistemazione QUI ovviamente trovata come sempre su Airbnb (Avete anche uno sconto se vi iscrivete con questo codice promo) era a dir poco stupenda. Un piccolo angolo privato di paradiso che mi porterò sempre nel cuore, un giardino tropicale con la piscina e due casette separate composte da camera bagno e cucina (l’abbiamo usata per metterci le scarpe tanto amiamo cucinare), ognuna con patio arredato con divani e poltrone in stile balinese. Svegliarsi la mattina e trovarsi immersi a piante fiori e farfalle è qualcosa di impagabile, inoltre era fuori dal centro di Ubud quindi silenzio e tranquillità garantiti.

La nostra sistemazione a Ubud
Ubud è una sorta di grande villaggio balinese con giardini, templi e cortili lussureggianti, un ristorantino dietro l’altro e anche se molto turistica non è affatto resa brutta da negozi truci e ghettizzazione degli stranieri. Si trovano i motorini da affittare che consiglio perché il traffico che c’è a Bali forse è paragonabile alla circonvallazione di Milano alle 6 di sera, un inferno causato da poche strade e una guida un po’ frizzantina da parte dei locali.
Affittare il motorino a Bali significa spendere qualcosa come 3 euro al giorno e il pieno di benzina lo si fa con 1 euro fermandosi anche nel villaggio più sperduto dove sulla strada le persone del posto vendono le bottiglie di benzina e ti aiutano a versarla con un imbuto tra sorrisi e ringraziamenti.
In generale a Bali la vita costa pochissimo e la loro moneta, la rupia indonesiana, è circa 1 a 15.000 (15 mila rupie che loro intendono come 15 è 1 euro) per cui ci si può godere a pieno ogni cosa senza l’ansia di dilapidare un patrimonio.
A Ubud oltre al palazzo imperiale, al tempio vicino al ponte da cui poi parte una stupenda passeggiata fino alle risaie e al ninfeo del caffè Lotus bisogna vedere per forza il mercato dove tra souvenir e qualche paccottiglia si possono fare veri e propri affari conoscendo e indossando la cultura balinese. Tessuti meravigliosi, gioielli etnici in argento e una enorme quantità di cose realizzate con il bambù e in vimini, intrecciati da loro che hanno agili mani e tanta creatività. Qui la parola d’ordine è l’arte del contrattare, si scende di prezzo in un ribattere come al ping pong e poi ci si stringe le mani per fermare l’offerta condivisa.
Così una stola dai colori tipici la paghi circa 8 euro, una vestaglia con motivi balinesi tessuti a mano circa 11 e il cappello a cono che usano nelle risaie circa 7. E’ un luogo meraviglioso.

Sacred Monkey Forest
Il tempio di Taman Ayun
Le risaie terrazzate.

Cosa visitare partendo da Ubud
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scegliendo Ubud abbiamo potuto girare i suoi dintorni con il motorino senza problemi e vedendo tutto quello che era facilmente raggiungibile, una volta che ci si prende la mano nulla vi spaventerà e nello scorrere dei villaggi vedrete come tutti vi saluteranno anche solo incrociando il vostro sguardo per un secondo, accompagnandovi con un sorriso.

-         SacredMonkey Forest si trova proprio a Ubud alla fine di una via principale piena di ristorantini e negozietti, è una foresta antica e sacra per la popolazione locale dove sorge un tempio secolare e vivono in libertà (seppur controllate, curate e seguite in tutte le loro fasi) centinaia di scimmie. La foresta è meravigliosa e sembra la scenografia di un film fantasy, ci sono esemplari di piante tropicali e anche qualche Ficus millenario con fronde fittissime, un habitat perfetto per le scimmie che si rincorrono, litigano e cercano di rubare ai turisti qualsiasi cosa sia vagamente commestibile. L’ingresso costa 50 mila rupie (3,5 euro circa) ed è consigliabile anche a chi non ama particolarmente le scimmie o l’idea di averne una addosso, tipo me.
-         Tegalalang a 20 minuti da Ubud ci sono le terrazze del riso, ovvero le risaie terrazzate che qui sono uno spettacolo naturale unico al mondo, frutto dell’ingegno e della dovizia umana, i balinesi sono grandi lavoratori e con le ginocchia nel fango seguono il ciclo di raccolta del riso. La vista dall’alto qui è davvero impagabile.
-         Taman Ayun, 1 oretta circa di motorino per arrivare a questo tempio molto famoso e suggestivo, che sorge sull’acqua incanalata perfettamente a creare quasi un’isoletta su cui sorge la struttura con gli altari e i tetti di paglia. Attorno un giardino zen da catalogo di botanica con fontane, ninfei e canneti. (Costo dell’ingresso 20 mila rupie, circa 1,50 euro).
-         Tanah Lot, 1 oretta di motorino per il tempio più famoso di Bali godendo di un panorama mozzafiato anche quando la giornata non è proprio delle più belle. E’ un tempio che sorge su un grande scoglio a ridosso della scogliera alta che guarda il mare (a sud ovest) che è raggiungibile solo quando c’è bassa marea altrimenti è una sorta di Mont Saint Michelle. Dall’alto della scogliera è un panorama mozzafiato ed è anche un bellissimo punto da cui godersi il tramonto. L’ingresso costa 60 mila rupie, 4 euro circa e sulla scogliera prima del tempio c’è anche una serie di negozietti e localini, tra cui il Luwak cafè, un posticino molto carino dove accarezzare il Luwak, l’animale dalla cui cacca si ricava il caffè.
-         Waterfall Tegenungan 10 minuti di strada in motorino per arrivare alla cascata del villaggio immersa nella foresta tropicale, un salto di 10 metri dove sorge anche un tempio e una fonte di acqua sacra (Spring water) in cui potersi immergere. (Ingresso 15 mila rupie, 1 euro).
-         White Sand Beach 1 oretta e mezza di strada per arrivare a questa spiaggia molto bella a Padangbai, a sud ovest, spesso il mare non è calmissimo ma è anche il fascino di questo luogo. L’ingresso costa 10 mila rupie, meno di 1 euro, e sulla spiaggia ci sono i baracchini per mangiare a un prezzo ridicolo piatti tipici balinesi cucinati dalle signore del posto.
-          Goa Gajah a 10 minuti da Ubud sorge un tempio spettacolare immerso nella foresta tropicale più profonda, con un giardino zen e un enorme albero dalle migliaia di radici che sembra finto da quanto è bello. Il tempio è famoso per la Elephant cave, una caverna utilizzata per le preghiere celebre per le sue forme antropomorfe. Ps: per chi ha paura dei serpenti sappiate che c’è un uomo con un enorme pitone all’ingresso, io ho urlato e sono fuggito come se non avessi pagato il biglietto per entrare. Ingresso 15 mila rupie, bisogna avere le gambe coperte con il loro tipico gonnello, se non lo avete ve lo danno prima di entrare.

La cascata Tegenungan
Il tempio di Tanah Lot
Il giardino zen alla Elephant Cave


LE ISOLE GILI:
siccome il mare a Ubud non è facilmente raggiungibile tutti i giorni abbiamo optato per una breve e avventurosa, nonché romantica, parentesi alle isole Gili che si trovano a ovest e si raggiungono con il traghetto in un paio d’ore partendo da Padangbai. Noi abbiamo scelto la più piccola, Gili Meno che si trova in mezzo e che si raggiunge dall’altra isola Trawangan in dieci minuti con una barchetta contrattata al porto. Un consiglio, il traghetto Padangbai- Trawangan ha varie compagnie, sconsiglio la compagnia Semaya perché è sempre in ritardo e l’ultima a partire. La tratta andata e ritorno costa circa 40 euro e si arriva in un paradiso.
Gili Meno è molto piccola, circa 1 ora per girarla tutta, ha spiagge bianche di coralli e acqua cristallina, non ci sono motorini ma cavalli e portantine anche se è bellissima da girare con la bicicletta o a piedi.
Il mare più bello è quello a sud nella parte che guarda Gili Air, l’altra isola, mentre il tramonto è suggestivo, il sole tramonta circa elle 18-18:30, a ovest, guardando l’isola Trawangan.
E’ pieno di bungalow sulla spiaggia con ristorantini e localini, il nostro si chiamava BIRU MENO a sud e ci siamo trovati molto bene, l’ambiente è spartano e semplice così come l’isola che ispira proprio quel lato avventuroso, si vive in sandali e costumi, si cena sulla spiaggia, ci si emoziona e si ci si spaventa per le tracce di un serpente sulla sabbia e per l’attraversamento di un varano di 1 metro, però tutto sopportabile grazie alla meraviglia del posto.
Ps: in attesa del traghetto a Trawangan per ritornare a Bali consiglio un posticino molto carino davanti al porticciolo dove fare colazione, si chiama Banyan Tree.
Consiglio anche di non pensare di andare alle Gili in giornata perché non è fattibile, minimo 2 notti per godersela un po’ e fare 1 giorno e mezzo pieno di mare e relax ignorante da spiaggia.

La foresta di palme a Gili Meno
Arrivando in barca a Gili Meno.

UBUD, DOVE MANGIARE?
Se il vostro cruccio è cosa mangiare dove e se si trova una pizza decente per quando siete in astinenza a Ubud vi assicuro non soffrirete, al contrario sarete felicissimi di uscire a cena, anche chi solitamente è restio di portafoglio e poco incline a mangiar fuori tutte le sere. Complici i piatti da 3-4 euro al massimo e la cucina balinese davvero ottima, i ristorantini a Ubud sono uno più carino dell’altro. Vi segnalo i miei preferiti per location servizio e cibo.

-         Lotus Cafè, si mangia seduti su dei cuscini a bordo di un bellissimo ninfeo, fanno piatti tipici balinesi ma anche da food blogger che devono nutrire corpo e Instagram con avocado e salmone.
-         Lala e Lili, un ristorantino defilato gestito da sole donne dove servono tutto sulle foglie di banano, compresa una torta al cioccolato che ci si sogna la notte, è immerso nella natura e la sera c’è un’atmosfera rilassata e rilassante.
-         Gajah Biru, sembra quasi l’area comune di un ostello da quanto è carino e informale, gestito da un signore gentilissimo e una ragazza molto bella, fanno addirittura una pizza che non è male. E’ defilato rispetto al centro e l’arredo così divertente che se fosse a Milano sarebbe il posto più frequentato per chiacchierare, lavorare al pc e incontrarsi tra amici.
-         Cafè Pomegranate, il mio preferito per il pranzo perché per arrivarci si cammina tra le sterminate distese delle risaie in un luogo incredibile che mi porterò sempre nel cuore. Il cafè è a pianta rotonda e il tetto in paglia riprende il cappello dei coltivatori di riso a forma di cono, ci si leva le scarpe e si mangia con una vista a 360 gradi sul paesaggio naturale seduti su comodi cuscini. INCREDIBILE.
-         Karsa Cafè, anche qui si è immersi tra le risaie (altre rispetto a quelle del Pomegranate) dopo una passeggiata di circa 2 km piacevole da fare per poi arrivare all’ora di pranzo e sedersi tra i giardini terrazzati e il ninfeo.
-         Cafè des artistes, è il ristorante più chic di Ubud e abbiamo dovuto persino prenotare per avere un tavolo con candela romantica sotto alla veranda del giardino. Molto bello e piacevole e seppur chic quasi da atteggio abbiamo speso neanche 30 euro in totale.
-         Gedong Sisi Warung, carino e personale gentile, l’atmosfera all’orientale è piacevole e anche i piatti sono particolari per profumi e colori, così come i cocktails.


Bali è un mondo a parte, un mondo fatto di persone che stanno bene, che lavorano con il turismo, che parlano in inglese e se capiscono che sei italiano ti dicono anche “Buongiorno”, che tutte le mattine benedicono le offerte da loro intrecciate e lasciate davanti a case negozi giardini e templi. E poi c’è una parte più nascosta fatta di villaggi un po’ sgarrupati, baracche con il tetto in lamiera, qualche cane randagio, persone che vivono come possono ma intrecciano sempre il bambù, tagliano la legna, raccolgono i cocchi e sorridono, sempre. Non c’è mai stata una volta che chiedendo informazioni, indicazioni e suggerimenti ci siamo imbattuti in persone poco cortesi, al contrario era quasi una gara a chi era più gentile e solidale.
I balinesi sono un popolo straordinario e nonostante li abbiamo invasi letteralmente portando in qualche angolo un po’ troppo Occidente, loro sono lì contenti e felici a mostrarci fieri tradizioni storia e cultura.
E’ stato questo il “bottino” più ricco che mi sono portato a casa e il motivo per cui poterò questo viaggio sempre con me.

 
Il posto che mi porterò sempre nel cuore
 
Zen, quello vero


E' COLPA NOSTRA?

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HERE COMES THE SUN, il numero di Agosto
La digitalizzazione spesso ci fa dimenticare che prima non era tutto così e prima di spulciare distrattamente notizie di cronaca spettacolo o politica da accattivanti post selezionati sulle pagine Facebook e condivisi solo per il titolo senza nemmeno aver letto il contenuto, c’era il lento sfogliare del giornale al bar, a casa sul divano o sui mezzi pubblici.
Non credo ci sia un giusto o sbagliato, è l’evoluzione del progresso e la richiesta sempre più crescente di una fruizione “smart” di tutto quello che abbiamo intorno. Non c’è tempo di chiedere al giornalaio sotto casa la nostra rivista preferita ma la leggiamo tramite l’app o sul sito stellinato tra i preferiti, vogliamo conoscere l’ultima polemica in trend su Twitter quindi ci aggiorniamo velocemente per poi inserirci nella mischia come fosse un incontro di rugby australiano.
Prima delle frivolezze estive Condé Nast ha dichiarato che a breve si chiuderanno le riviste satellite della principale Vogue Italia per un ridimensionamento dell’editoria del gruppo che ha appena superato il lutto di Franca Sozzani rimpiazzata da Emanuele Farneti. Chiuderanno così Vogue Sposa, Vogue Bambino, Vogue Accessori e Vogue Uomo con un taglio drastico per giornalisti e pubblicisti.
A me dispiace perché nonostante siano riviste di settore dedicate a categorie ben definite hanno rappresentato l’editoria italiana e lo sviluppo di un sistema comunicazione variopinto non destinato solo a un preciso target di vendita. Vogue Uomo seppur non con la stessa forza di quello al femminile era un riflettore puntato sulla moda uomo che ha un mercato interessante e che merita una giusta attenzione, invece così sembra cadere nell’oblio di qualche breve trafiletto in occasione della settimana moda maschile e stop.
Per fortuna sono salve sia Vogue Italia che Vanity Fair che per contenuti e firme giornalistiche possono contare su un fidelizzato numero di abbonati e lettori, anche se con l’avvento di Internet e di siti sempre più veloci e soprattutto gratuiti si rischia il solito quesito, “Perché spendere 5 euro al mese se posso leggere dal telefono o dal pc?”.
Personalmente da pc o da telefono leggo sempre tutto con meno attenzione, la parola scritta e stampata l’assimilo di più, la seguo meglio e riesco a percepirne di più il significato e il filo conduttore tra le righe, così leggo libri e riviste solo se posso sfogliare e tenere con le dita le pagine. Sul metrò divoro i libri riuscendo a evadere da telefonate e il vociare dei più maleducati così come settimanalmente leggo Vanity Fair a cui sono abbonato da anni.
La notizia di Condé Nast mi ha fatto un po’ riflettere e se posso sostenere l’editoria che si fa portavoce della moda e del gusto italiano allora ben venga l’abbonamento annuale a Vogue Italia a partire proprio dal numero più interessante, quello di Settembre che da sempre per moda e stile è il mese dove si “ricomincia”.
D’altronde 30 euro per ricevere a casa mensilmente servizi fotografici dei più importanti obiettivi del mondo quali Steven Meisel o Bruce Weber, è un ottimo investimento.

E poi volete mettere poter fare le orecchie sulle pagine sfogliandolo comodamente sul divano e impilare i numeri fino a farli diventare un elemento decorativo dell’arredo? 

IL LATO RIDICOLO DI INSTAGRAM

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Uno dei migliaia di hashtag usati per questo genere di trend.
I social ormai sono parte effettiva e integrante della nostra vita e grazie a geotag, foto e condivisioni ogni giorno riusciamo a scoprire qualcosa di interessante, di nuovo e di curioso. Chi ha la fortuna di avere bene in mente cosa vedere e cosa no sui propri profili può scindere le cose di gusto e le cose totalmente estranee al proprio interesse, così gli amanti di gioielli sono invasi da diamanti e parures da brivido, chi invece opta per il food allora può sbizzarrirsi tra piatti minimal fotografati asettici dall’alto e ricette.
Instagram in particolare è diventato terra di tutti e terra di nessuno, un pianeta dove ognuno esprime creatività, dimestichezza con l’obbiettivo fotografico e un pessimo, tremendo gusto estetico.
Non voglio essere frainteso, Instagram è il social che più utilizziamo per rimanere in contatto con persone con cui abbiamo un feeling, virtuale e non, che ci permette di essere sempre sintonizzati su quello che fanno, su quello che visitano, su come vestono e che locali frequentano, così da arricchirci o ispirarsi.

Quante volte abbiamo visto la foto di un posticino carino dove fare una buona colazione nella nostra stessa città ed esserci andati? O uno scorcio di un museo che non conoscevamo e che ci ha fatto prenotare il treno per quella nuova città? Ecco, questo è un modo intelligente di utilizzare i canali social secondo le proprie passioni, aprire gli orizzonti ed essere spinti verso l’esterno.
Come tutte le cose però c’è un rovescio della medaglia che sta venendo a noia più dell’enorme quantità di sponsorizzazioni non pertinenti che ogni 3 foto compaiono nel nostro profilo, ovvero l’esagerata finzione a cui siamo soggetti.
Nessuna demonizzazione e nessuna critica specifica, la mia vuole solo essere un’analisi che penso sia comune a tanti. Instagram è sì la nostra immagine, un album fotografico delle nostre comuni vite e un fotoracconto aggiornato di quello che facciamo, e come tutte le immagini scelte a tavolino da mostrare agli altri è ovviamente un po’ “ritoccata”.
Com’è giusto che sia.

Se a una serata elegante mettiamo il nostro abito “buono”, lo stesso faremo su Instagram, mostreremo il lato elegante e ricercato di quello che facciamo, indossiamo, mangiamo e visitiamo. È più facile che fotograferemo un bel piatto e una bella tavola apparecchiata piuttosto di una ciotola di plastica in cui sbattiamo l’insalata della busta, ed è giusto così.
Il lato ridicolo però è l’esagerazione di questa ostentata perfezione che si trasforma in fastidiosa finzione percepita magari non al primo sguardo ma che non sfugge a un occhio un po’ più attento e osservatore.
L’esempio lampante sono le foto delle colazioni, trend del 2014, viste ancora nel 2015 e nel 2016 e straviste (purtroppo) nel 2017. Non è il cappuccino decorato dell’affezionato bar appoggiato sul bancone dove siamo soliti correre prima dell’ufficio, ma quei banchetti nuziali spacciati come spontaneo inizio-giornata piene di cose trovate in giro per casa per fare contorno allo scatto.
Il set è sempre quello, un lenzuolo, un piumone bianchissimo o un pianale di marmo con venature più scure, al centro dell’immagine un caffè una cioccolata un cornetto, fin qui tutto normale, se non fosse che attorno trovi di tutto.


Bacche, fragole, arance, mele, pere, limoni, orologi, papillon, braccialetti, fiori ah i fiori quanto piacciono come se prima di fare colazione scendessimo sempre a comprare peonie fresche 50 euro al mazzo, fiori finti (nelle peggiori sottocategorie), piedi pelosi e scarpe vicino a biscotti, torte di mele, profumi, occhiali da vista e da sole, vestiti piegati (vicino al caffè sopra al piumone? Io farei una strage subito), burriera, sale e pepe, grattugia, una corda da barca (lo giuro) e poi cucchiaini, cucchiaini ovunque sparsi a coprire i vuoti e a creare casuali simmetrie.
Alla spontaneità della foto poi si aggiunge la spontaneità del destinatario con 45 tag di pagine che condividono simili contenuti nella speranza del repost e dei like a cascata, e un infinito elenco di hashtag senza senso (#GayBreakfast gay hanno una loro categoria o #CaffeineCouture una nuova linea d’abbigliamento) perché non si sa mai che qualcuno ci caschi.

Anche il New York Times è un classico complemento d’arredo, fa nulla se si abita a Gela o a Melegnano, è il giornale straniero che si abbina al meglio a una colazione veloce (?) da fotografare arrampicati su sedie, tavoli e banconi. Più è alta l’inquadratura più scattano i like? Mistero.
E come se non bastasse i protagonisti più accaniti di questo trend dal lenzuolo bianco e bacche di ribes anche il 15 di dicembre, sono anche commentatori seriali di altri profili, di altre colazioni, di simili set.
Sarà un caso? Per alcuni è evidente che a legarli c’è un rapporto anche nella vita reale, per altri invece è evidente si nascondano le relazioni dovute ai “Follow for Follow?” “Comments for comments?” di gruppi nati per sostenersi a vicenda.
Si viene selezionati per numero di followers e contenuti simili, si richiede di essere attivi con gli altri profili iscritti con like e soprattutto commenti, perché più sono i commenti e più sono gli effetti a cascata per attirare nuovi followers. L’obbiettivo comune? “Aumentare l’engagment” (cit.)
Sostenere amici e profili affezionati è cosa buona e giusta ma non quando si sfiora l’esaltazione o per l’appunto, la finzione.

Così i commenti sono sempre gli stessi “Bellissimo/a tu”, un selfie, “Bellissimo scatto”, un banalissimo monumento visto e stravisto, “Mi fai venire voglia di fare di nuovo colazione”, un caffè della moca e una brioche confezionata, “Vorrei essere lì”, uno scoglio qualsiasi di una qualsiasi spiaggia ligure, “Li voglio”, braccialetti di bigiotteria, “Wow”, una mozzarella in busta Santa Lucia (GIURO) che ha ispirato 8 righe di didascalia melensa sul senso della vita e sulle ricette per l’estate.

Su questi scatti e su questi profili indubbiamente piovono like commenti e richieste di collaborazioni da varie aziende ma forse manca il senso critico, oltre che del gusto, di capire che i propri followers non sono tap tap passivi che non colgono la finzione e le strategie che si nascondono dietro ogni scatto postato e che spesso è tutto molto triste e ahimé evidente. 

LADY DIANA: VENTI ANNI DOPO

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Lady D a Portofino poco prima di quel 31 agosto 1997. 

Domani saranno 20 anni da quel 31 agosto 1997, la mattina dopo ero a Vallombrosa e mentre giocavo sul piazzale di fronte all’appartamento di Nonna tra le sue ortensie e gli alberi rigogliosi una voce tuonò dall’alto, da una delle finestre del piano nobile, era la signora Grazzini che ogni estate prendeva in affitto la casa, si affacciò e disse con quella voce rauca tipica di chi fuma almeno 30 sigarette al giorno “E’ morta Lady D”.
Ero piccolo per comprendere l’enorme velo di tristezza che tutti più o meno provarono nel constatare che la principessa Diana era morta in quell’atroce incidente stradale a Parigi per scappare a tutta velocità dai paparazzi che la inseguivano in ogni sua mossa.
Tutti noi ricordiamo le immagini dell’auto, quel lenzuolo bianco tirato sulla portiera e gli ultimi fotogrammi di Diana accompagnata da Dodi Al Fayed mentre escono dal Ritz per poi salire su quella macchina che si sarebbe schiantata sotto al tunnel dell’alma.
Sono passati venti anni ma nessuno ha dimenticato quella figura patinata e gentile che tutti abbiamo continuato ad amare per il ricordo e la sua storia.

Nobile di origine e principessa per matrimonio il 29 luglio 1981 ha fatto sognare indossando un abito che ha segnato l’epoca, due enormi maniche a sbuffo, un corto caschetto biondo e uno strascico di 8 metri che l’ha accompagnata nella cattedrale di Saint Paul verso il suo destino, sposare l’erede al trono d’Inghilterra, il figlio primogenito di Elizabeth II, Carlo.
Se fosse stata una favola disegnata e animata dalla Disney ci sarebbe stato il “vissero felici e contenti” dopo quella trionfale uscita sul balcone di Buckingham Palace ma dietro quei sorrisi vittoriosi e quella comune riverenza si nascondevano segreti, artefatte gentilezze e un senso di inadeguatezza per quella vita da principessa reale.

Carlo è sempre sembrato un burattino nelle mani della monarchia e piano piano fu evidente che non amava Diana ma la sua ex fiamma Camilla Parker Bowles (poi sposata e divenuta duchessa di Cornovaglia), i due figli William e Harry crescevano di fronte ai suddetti, vicino alla madre durante le visite ufficiali erano perfetti, per garbo e simpatia soprattutto.
E sono loro due, 15 anni William e 13 anni Harry, a seguire il feretro della madre dando al mondo l’immagine più triste di questa storia, due principi orfani di una madre capace di svecchiare la polverosa sequenza di visite diplomatiche, feste reali e inchini desueti.
Diana piaceva al mondo ma non alla sua famiglia, il suocero, il principe Filippo la chiamava “La bambinaia” e la suocera, Elizabeth II, fu molto criticata per l’atteggiamento freddo e distaccato avuto nei giorni seguenti alla morte della principessa perché i sudditi si aspettavano tatto e sensibilità dalla sovrana ma ovviamente non si conoscono e mai si conosceranno i misteriosi retroscena dei rapporti che vegliavano sulle due.


Diana aveva divorziato dal principe Carlo, aveva un nuovo compagno e girava il mondo osannata per tutto quello per cui si può osannare una donna che appartiene per rango alla più chiacchierata famiglia del mondo: stile, eleganza, bellezza e generosità.
La principessa Diana dettava le regole della moda negli anni ’90, vestiva Versace, Valentino, Chanel o Dior senza mai dare l’idea di cambiare pelle, le si addiceva un abito da gala coperto e quasi monacale così come uno strizzato tubino con inserti preziosi e vistoso spacco sulle belle gambe, non era mai volgare e nella sua semplicità quasi sbarazzina era ancora più raggiante e perfetta.
In abiti da campagna o con veletta o in costume su un panfilo Lady D sapeva indossare qualsiasi cosa perché prima ancora della firma c’era un’eleganza umile e semplice, connubi che non si comprano nemmeno nella più prestigiosa delle boutique.

Più importante del suo guardaroba però c’è l’impegno umanitario, perché è riduttivo semplificare l’immagine di Diana al solo entrare / uscire ben vestita da negozi d’alta moda in giro per il mondo, al contrario quello fu per i più attenti osservatori, un mero specchietto per le allodole.
La principessa catalizzava su di sé un autentico caos di attenzioni mediatiche tollerate solo per riuscire nel suo intento, aiutare le persone in difficoltà. Così mentre la famiglia reale si blindava come un cimelio tra palazzi e garden parties ignorando la voce comune dei sudditi che si allontanavano sempre più, Lady Diana visitava malati, bambini, popolazioni stremate dalla fame divenendo simbolo di un sostegno umanitario importantissimo mai visto primo alla corte dei Windsor.

Tony Blair la chiamò “La principessa del popolo”, i suoi figli dissero di lei “Era una madre perfetta” rimpiangendo quella veloce ultima telefonata e tutti noi ogni volta che sfogliamo una foto del piccolo George e della piccola Charlotte pensiamo che Nonna amorevole avrebbero avuto.

Lady D non è mito o leggenda ma più semplicemente una donna capace di vivere nonostante le costrizioni del suo rango, una donna che è andata oltre alle apparenze da cronaca rosa e che ha avuto troppo poco tempo per dimostrarlo. 

MILANO: IL VIVERE ELEGANTE

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Tutti noi abbiamo un concetto personale di eleganza e raffinatezza anche se spesso si confonde questo chiaro tratto distintivo delle persone più fortunate con il sapersi vestire o nell’avere al braccio l’ultima delle borse più prestigiose proposte dalle maison di moda. Sbagliatissimo, quello che rende una persona sofisticata, elegante e raffinata è sempre il sapersi comportare a modo in ogni occasione facendosi riconoscere non per la capienza del portafoglio o il saldo complessivo di quello che si ha addosso ma per portamento, buona educazione e gentilezza.
Tutte caratteristiche che non solo non si comprano ma bisogna che ci si nasca o ci si venga abituati fin da piccoli. Così una Chanel può fare arricchita e un semplice vestitino del mercato delle pulci può fare signora di classe, sta tutto nell’atteggiamento.
Come dice sempre mia madre, i veri ricchi non ostentano e Milano, come spesso le grandi città, è un vero calderone dove lo struscio prepotente sui marciapiedi di Montenapoleone mischia cafoni da sabato pomeriggio col Ferrari rombante in doppia fila e ragazza appariscente da Vuitton a polso slogato, con anonimi milanesi che rimandato il fine settimana in Liguria si godono una passeggiata pomeridiana con scarpe comode senza griffe da labirintite.
Come in tutte le cose non si può essere estremi e non si può pretendere di non vedere accozzaglie di marchi lusso tutti insieme o di avere a che fare con sole persone che non ostentano assegni del papi o dell’ultimo sventurato marito, ma senz’altro si può cercare di frequentare luoghi dove assaporare un certo non so che d’eleganza e buon gusto, cose semplici alla portata di tutti, basta saper osservare.

Il tragitto del tram 1: ho sempre definito questo tram non un semplice mezzo di locomozione ma il simbolo di Milano, per la sua vettura scricchiolante anni ’20 e quel predellino che si lancia fuori in corsa come se non dovessi perdere tempo a volarci sopra o giù e soprattutto per il suo percorso che attraversa le meraviglie di Milano fermata dopo fermata. Qui salgono ancora gli anziani che si tolgono il cappello quando incontrano e salutano qualcuno di famigliare, i giovani che cedono il posto a sedere, gli innamorati di Milano con il naso incollato al vetro e gli appassionati di storie. Capita sull’1 che una signora racconti la sua vita dandoti confidenza perché hai tra le mani una cappelliera che l’ha incuriosita.


Lo spettacolo delle 20 al cinema Colosseo: in una giornata uggiosa, piovosa e apparentemente triste il cinema è l’antidoto e se ben selezionato il film può essere un bellissimo passatempo non solo per la pellicola ben recensita da autorevoli critici ma per la compagnia in sala. Gruppi di amici storici, camicia e giacca sfoderata per lui e tailleur casual per lei, senza smangiucchiare rumorosi pop corn, senza catapultarsi a metà film oscurando la scena madre e senza suonerie del cellulare. Complici le salette piccole, le poltrone in velluto e ovviamente il quartiere il Colosseo è un vero angolo d’eleganza cittadino.

La passeggiata disinvolta in Vincenzo Monti: quel tunnel che pare quasi uno varco spazio-temporale che è Via Vincenzo Monti diventa teatro di eleganti passeggiate di persone che a passo lento e invidiabile al mattino non devono correre per timbrare in ufficio o scalmanarsi per arrivare in tempo al corso di bodypump. Signori in Loden e mogli in ballerine fuori per le commissioni senza fretta, il giornale al braccio, il pane dal prestinaio caldo nella borsa della spesa (portata da casa, ovvio) o due amiche dalle gambe eleganti affusolate e ben incrociate che si godono una ricca colazione in pasticceria senza curarsi del tic tac degli orologi, altrui.

Il mercato del giovedì mattino: il lusso vero non è girare il mondo su un panfilo di 42 metri solcando un giorno le Antille e il giorno dopo le Azzorre ma avere un giovedì mattina libero per andare al mercato a via Marcona, là dove un pomodoro pachino viene venduto confezionato come un Bulgari e i venditori salutano le signore con “Buongiorno bella donzella” chiamandole per nome. Qui si possono incontrare vere dame milanesi alla ricerca di qualche vestito tirolese da mettere durante le vacanze d’inverno sulle Dolomiti del Brenta o scialli di cachemire dai colori moda strillati al banco tra risate e occhiate simpatiche. 


Il cocktail di Christie’s: all’apice della scala sociale dell’elegante vivere milanese sicuramente compare il vernissage di stagione offerto da Christie’s prima delle folgoranti battute d’aste, che siano di gioielli, quadri o grandi maestri del Novecento, si riunisce tutta la bella crema della città in un’atmosfera sognante sotto la volta del Tiepolo a Palazzo Clerici. Gli invitati, tranne alcuni inspiegabili casi come il sottoscritto, sono tutti collezionisti, curatori d’arte o clienti della casa d’aste, persone che hanno o avranno un De Chirico in salotto perché si sposa alla perfezione con la nuova tappezzeria. Al di là delle spighette Chanel e dei raffinati completi sartoriali dei presenti sono gli occhi emozionati per l’arte il motivo per cui varrebbe la pena essere nella lista, per espresso desiderio di chi la compila o per l’ottima riuscita nell’imbucarsi. 

LO CHARME NON HA ETA': FIONA CAMPBELL WALTER

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Se nasci ricca e blasonata c’è una sola fortuna che ti fa fare bingo, nascere ricca, blasonata e bellissima. La storia ha sempre avuto una costellazione di donne celebri vissute sotto una buona stella che hanno passeggiato gloriosamente sulla strada del successo, chi per lo sfavillante lusso della moda, chi per un matrimonio da rotocalco, chi per charme e stile indiscusso.
Tra le bellissime Marella Agnelli, Allegra Caracciolo di Castagneto (di lei scrissi qui) brilla oltralpe anche Fiona Campbell Walter, classe (e che classe!) 1932 nata ad Auckland in Nuova Zelanda con un padre ammiraglio della Marina Reale inglese e una madre aristocratica che subito percepisce le potenzialità matrimoniali e non solo della sua bellissima figlia.
Armoniosa, bruna e con un fisico longilineo, Fiona in poco tempo diventa l’essenza reale e tangibile del gusto sofisticato dei folgoranti anni ’50, una modella che come nessuna ha incarnato un’epoca e il suo specchio, la moda.


Lasciata alle spalle la guerra, la distruzione e l’aria dimessa finalmente il risveglio culturale esprime la sua potenza con il design, l’arte e la moda con uno stile così aristocratico che ancora oggi tante fogge e colori lo si devono proprio a quella voglia di esaltare la bellezza femminile spensierata e sublime. Non il funebre nero che tanto ha vestito lutti e malinconie negli anni ’40 e sì al rosa, al ceruleo e a tutta una gamma di sfumature arricchite da velette, piume, guanti candidi e pellicce sventate.
È sempre la gonna il simbolo dei cambiamenti economici di un paese e se negli anni ’40 era stretta e fino al ginocchio, negli anni ’50 esplode in volume e fantasia, dando una nuova forma alla donna, come fosse un fiore sbocciato.
Fanno capolinea i grandi della couture, Christian Dior, Balenciaga, Schiaparelli, Givenchy e pongono le basi per la generazione futura, i vari Yves Saint Laurent, Valentino e Ferrè, perché la moda è come un abito che si forma bottone dopo bottone e ogni parte è necessaria e contingente per il risultato finale.



La sofisticata Fiona arriva prima di tutte a impossessarsi il titolo della modella più famosa degli anni Cinquanta, compare in copertina su Vogue e diventa musa del più ricercato fotografo dell’epoca, Cecil Beaton, il fotografo di corte che immortalò una lunga ma ben precisa lista di reali di casa Windsor tra cui una giovanissima Queen Elizabeth.
Scorrendo il suo “portfolio” si rimane incantati dall’aria raffinata ma non volutamente raffinata, si nota subito l’essere a suo agio tra abiti da sera, gioielli cesellati e stole di visone, è il suo pane quotidiano e il sapersi vestire per ogni occasione rappresenta il gusto di quegli anni.
Non si vedranno mai cappelli a tesa larga e guanti bianchi su una scogliera rocciosa ma espadrillas in corda e un foulard tra i capelli, in casa camicia e pantaloni capri con scarpe basse perché i giornali rappresentano sì il sogno, la classe e un’eleganza femminile a cui tutte aspirano, ma raccontano anche una verità, levrieri afgani inclusi.


Nel 1956 all’apice della sua carriera incontra il barone Thyssen-Bornemisza de Kászon incontrato 12 ore prima a Sainkt Moritz e si ritira dal mondo della moda salvo un sublime servizio fotografico firmato da Philippe Halsman del 1963 che la immortala tra le mura della sua Villa la Favorita a Lugano.
Nel 1965 si rifugia a Londra dopo il divorzio e inizia una relazione con il figlio di Aristotele Onassis morto però nel 1973. Da allora Fiona si ritira a vita privata e compare sempre meno a ricevimenti di lusso e su riviste patinate.

Questo è il fascino di chi sa mantenere la propria bellezza senza osteggiare il tempo che passa, la baronessa non ha cercato riparo nei ritocchi chirurgici ma ha saputo lasciare che gli anni scavassero rughe e imbiancassero i capelli rendendola ancora più elegante e carica di charme. 







LE FIRME DELLA MODA

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Franca Sozzani.
Il costellato e meraviglioso mondo della moda per l’immaginario collettivo è un ufficio luminoso con i corridoi tempestati di cover colorate con patinate modelle, titoloni allegorici e scatti dei più illustri obbiettivi fotografici che il pianeta abbia mai avuto. Tra questi spazi ben arredati, ben spolverati e con elementi perfettamente simmetrici e piante rigogliosissime si decidono le sorti per le prossime stagioni del glamour e del lusso il tutto cicaleggiando leggiadre e sorseggiando pinot in calici senza ditate. Cheers.
Il giornalismo di moda, quello autentico e professionale non è proprio come tentiamo di immaginare, patinato e frizzante in punta di tacco a spillo tra una sfilata, un cocktail e una serata di gala triangolate su Milano Parigi e New York, ma soprattutto, esistono ancora autorevoli firme di testata?

Anna Riva.
Siamo troppo abituati a veder scalpitare volti del mondo della moda che durante le sfilate si accalcano a presentazioni, defilé e front row instagrammando in diretta cappotti pellicce e modelline simbolo degli ultimi bienni e spesso confondiamo influencer e bloggers con le leggendarie giornaliste di testate che urlano a gran voce le novità di questo mondo sfavillante.

Isabella Blow.
Irene Brin
In passato le firme giornalistiche e le autorevoli penne del costume si presentavano senza sponsor e buonine osservavano tessuti, fogge e ispirazioni dello stilista che conoscevano perché lo avevano studiato, conosciuto approfonditamente o addirittura lanciato a suon di parole e riconoscimenti con trafiletti e titoli di supporto.
Ora è un po’ tutto cambiato, i giornalisti si appuntano sì parole chiave su cifrati taccuini ma più che le loro critiche intelligenti e sottili si attendono le loro mise, come se a rendere non fossero più gli articoli sulle stagioni proposte ma i vestiti indossati, spesso un po’ promozionali a seconda dello stilista che invita.


Anna Piaggi

Michela Gattermayer
Perfettamente vestite si lanciano da Missoni, fanno un saluto da Gucci, chiacchierano da Alberta Ferretti e volano per ammirare Valentino, Dior e Chanel, non fanno le annoiate e se lo fanno in fondo glielo permettiamo è il loro lavoro e lì siedono per gerarchia e per ruolo, non per aver scritto email di sudditanza a pr e uffici stampa del settore.
Quello che mi piace di più della vecchia leva del giornalismo di moda alla Anna Piaggi, Franca Sozzani, Anna Riva, Irene Brin, Isabella Blow o Diana Vreeland è che erano considerate donne non proprio bellissime ma con grande charme. E’ più importante avere capelli fluenti, seni impulsivi e gambe da capogiro oppure sapersi comportare, saper osservare e riportare su carta tutto quello che di extra-sensoriale si vive durante una passerella?

Più dinamiche e più a loro agio con i flash dei fotografi appostati su binari, marciapiedi e biciclette ci sono le giornaliste e le fashion editor di oggi che cavalcano l’onda sui social e sono seguitissime perché mostrano il lato più glamour e frivolo dell’ambiente moda, così la  sontuosa Volpicella, la carnevalesca Dello Russo, la scultorea Battaglia si aggirano per una Milano che sembra a loro disposizione, ponendo sempre più in alto l’asticella che divide chi firma i servizi e chi li sfoglia.

Viviana Volpicella
Giovanna Battaglia

Più amichevole e compagnona l’editor di Grazia, Silvia Grilli che ha svecchiato un po’ questo genere di femminile i cui servizi moda sono ben realizzati e di gusto, mentre rimane una vera leggenda per i più intenditori la milanese Michela Gattermayer, viceredattore moda di Gioia! altro magazine reso fresco e fruibile anche da chi non parla proprio la loro lingua, una donna che regala carisma e che ha vissuto le epoche più belle di questa incredibile città.
E non dimentichiamoci gli uomini, in particolare Angelo Flaccavento che ci ha conquistato con i suoi papillon nei primi anni 2010 e con i suoi riferimenti artistici negli articoli firmati per Vogue Italia così come Simone Marchetti, più social e vanesio del suo collega ma non per questo meno brillante quando si tratta di narrare la moda femminile e non solo su testate di tutto pregio come La Repubblica.


Il mondo della moda è un pianeta affascinante dove ormai tutti hanno messo bandiera ma c’è ancora qualche angolo da scoprire, da osservare e comprendere sempre più in profondità, perché la moda si studia e soprattutto, si legge. 

Angelo Flaccavento 
Simone Marchetti

CAMBIO PIUMONE: IL METODO ALLA POLACCA

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Prima di passare così le domeniche è necessario mettere in atto il metodo alla polacca 
A Milano è il 15 ottobre la data cardine per l’inverno, il giorno in cui i condomini accendono il riscaldamento e si inizia a dormire più coperti, poi in un batti baleno appare all’orizzonte novembre con la sua pioggerellina, la nebbia bassa, il cambio dell’ora e una stratificazione continua del letto con coperte e ancora coperte.
Così in una domenica piovosa e dalla luce cavernosa l’illuminazione, mettiamo il piumone.
Che tu lo abbia sottovuoto in solaio, arrotolato in un’anta dell’armadio che non hai più avuto il coraggio di aprire dall’ultima volta che l’hai spinto dentro con la forza o ancora dimenticato in tintoria, il giorno in cui lo dovrai tirar fuori automaticamente vorrai svenire dalla pigrizia ma fatti forza, è giunto il momento.
Per ovviare a questa infernale fatica in famiglia ci tramandiamo da generazioni e generazioni (due in realtà) il famoso “Metodo alla polacca”, un sistema che mi ha insegnato mia madre il cui nome è stato dato in onore ai campeggi che da giovani fecero con due ragazze polacche che lo utilizzavano sempre.
In pochi e semplici passaggi si riesce a mettere il copripiumone senza morire soffocati o senza trovarsi accartocciati a stella marina dentro al lenzuolo, poche regole, complice la geometria e un certo potenziamento di bicipiti e glutei.

Fase 1: sgombero e occupazione del territorio.
È necessario che il letto sia una sorta di sala operatoria ordinata e pulita con solo i ferri del mestiere, quindi no vestiti in giro, no federe e lenzuole sporche ma solo il piumone dal verso giusto ben disteso e pronto a cambiar l’abito.

Fase 2: sottosopra.
In questa fase si deve prendere il copripiumone e ribaltarlo all’inverso in modo che l’interno diventi esterno, sempre ben disteso dal lato giusto così che possa essere sovrapponibile al piumone.

Fase 3: inserimento.
Delicatissimo questo passaggio necessita di una chirurgica attenzione, infatti si devono inserire entrambe le braccia dentro al copripiumone fino al raggiungimento degli angoli opposti.

Fase 4: la vestizione.
Con le mani in corrispondenza degli angoli opposti si prendono gli angoli esterni del piumone e piano piano si fa scivolare esternamente il copripiumone sopra al piumone, come fosse un preservativo.

Fase 5: aerobica.
In questa fase si smaltiscono grassi e calorie, meglio della ginnastica e degli squat, infatti si consiglia di salire in piedi sul letto (che siano puliti) e si inizia a saltellare per favorire la discesa delle pieghe del copripiumone in modo che si arrivi a far combaciare tutti e quattro gli angoli.

Fase 6: estetica.
Come in tutte le cose ci vuole un tocco di stile e quindi in questa ultima fase si fa appello al proprio gusto estetico, si riempiono i vuoti del copripiumone e si appiana l’imbottitura così che sia bella omogenea per un risultato degno di un catalogo di AD.

È un’operazione veloce e prodigiosa, chi prova questo sistema poi difficilmente lo abbandona e quel cambio di piumone che di solito portiamo all’esasperazione con lenzuola consumate rimandando di settimana in settimana sarà invece una battaglia vinta.


CAFFE' E PASTICCERIE DOVE PASSARE L'INVERNO A MILANO

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Da soli o in compagnia l'importante è sempre trovare un bel posticino.

A Milano abbiamo un solo grande e noto problema: corriamo sempre, SEMPRE. È tutta una lotta contro il tempo, calcolato al millesimo di secondo il caffè con l’amica incastrato con la spesa, la raccomandata in giacenza da settimane, il corso in palestra, la lavanderia, il cocktail in Brera o quel vernissage segnato sull’agenda da mesi a cui si arriva sempre con l’acqua alla gola. È un’attitudine di vita, qui si programma e si corre, anche il sabato mattina quando tutto dovrebbe rallentare sentendo addirittura il cinguettio dei passerotti, no, il passo alla milanese non cede.

La bellezza di questa città è la quantità smisurata di stimoli, dalla mostra all’inaugurazione di un nuovo spazio creativo c’è un turbinio di cose da fare senza che ci si annoi mai e senza che la domenica non si abbia la minima idea di come passare il tempo.

Una cosa però accade immancabilmente quando programmi una merenda, una cena o un caffè veloce con gli amici, DOVE ANDARE? Sono uno di quei pazzi che si segnano tutti i posti carini che incontrano per caso o che scoprono attraverso i social, stilando così una lunga lista che all’occorrenza però non trovo mai, dimentico in ufficio finendo inesorabilmente sempre negli stessi posti.
So di fare del bene elencando qui posticini, caffetterie, pasticcerie per chi ha la grande responsabilità del “Ci vediamo alle 4 decidi tu dove e ti raggiungo” svincolandosi da menù turistici al neon o luoghi della troppa moda.

NB: per semplificare la lettura di questo elenco si consiglia una ben salda conoscenza della toponomastica milanese.


Caffettino? Vassoietto di pasticceria mignon? Tè delle cinque?

Pasticceria Sissi: Piazza Risorgimento 6

Pasticceria Di Lillo: Via Vincenzo Monti 47

Pasticceria Gattullo: Piazzale di Porto Lodovica 2

Pasticceria Biffi: Corso Magenta 87

Pasticceria Martesana: Via Giovanni Cagliero 14

Pasticceria Lizzi: Piazza Ambrosoli 1

Cremeria Buonarroti: Via Michelangelo Buonarroti 9

Pasticceria Galdina: Via Terragio 9

Taveggia 1909: Via Uberto Visconti di Modrone 2

Pasticceria Viscontea: Via Edmondo De Amicis 39

Pasticceria Ungaro: Via Ronchi 39

Gran Cafè & Tre Marie: Via Giovanni Morelli 4

Pasticceria Cucchi: Corso Genova 1

Pasticceria Marchesi: Via Santa Maria alla Porta 11

Torrefazione: Corso XXII marzo 18

Cocotte: Via Benvenuto Cellini 1

22 Milano: Via Principeo Amedeo 22

Bastianello: Via Borgogna 5

Pasticceria Margherita: Via Teodosio 56

Equo Caffè: Via San Maurilio 1

Tra le righe: Via Teodosio 44

Pasticceria Scaringi: Via Felice Casati 22

La Siciliana: Via Tedosio 85

Sugar: Via Vincenzo Monti 26 

Pasticceria Castelnuovo: Via dei Tulipani 18 

Pasticceria Giacomo: Via Pasquale Sottocorno 5

Tra questi indirizzi ci sono alcuni che ancora mi mancano e altri che invece conosco e dove ho passato qualche piacevole pomeriggio. Tutti ci affezioniamo a un tavolo preciso, a un rituale ben scandito e custodiamo il nostro indirizzo gelosamente, ma è altrettanto bello condividere qualche chicca per favorire chi ancora non ha trovato la sua dimensione e naviga un po’ a tentoni tra la grande scelta milanese.

Vi auguro di affezionarvi a un menù o a un inserviente come spesso faccio io quando scopro nuovi posti e ci torno sempre più spesso facendo sì il check della lista ma spostandolo in quella dei preferiti.


QUESTO NATALE, SCRIVI:

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Caro Babbo Natale, portami in dona una bella calligrafia. 
Ci sono due modi di vivere il Natale e l’avvicinarsi di questa festa che unisce o allontana:
1 un magone misto a nostalgia con fasi di isteria altalenante
2 un’euforia con ritorno al senso di famiglia, amore, buoni sentimenti e istinti caritatevoli

Saranno le canzoncine, le lucette, le vetrine allestite, l’albero, i trallallì e i tralallà ma il Natale è un momento bello da assaporare se sei a posto con la tua vita, se hai un bel lavoro che ti piace e ti soddisfa, una persona accanto che ti riempie la vita e ti riscalda l’altra metà del letto, una famiglia un po’ a pezzetti in giro per il mondo da riunire sotto un unico tetto.
Come in tutte le cose c’è un lato ostentato del Natale, questa sfrenata ossessione per cui a metà ottobre già gli scaffali di panettone e spumanti, già le stelline sui balconi e quelle sventurate newsletter commerciali che ahimè ricevi tutte le mattine già parlano di regali e whishlist.

E’ questo il lato del Natale che dovremmo piano piano far rinsecchire, perché l’albero si fa il 7 dicembre (a Milano) e l'8 in tutta Italia, i regali sono sì benvenuti ma non obbligatori al contrario delle mance della Nonna e tutti abbiamo almeno un amico che fa coming out e confessa di preferire il pandoro al panettone.
Il consumismo di noi fortunati nati nell’emisfero ricco del globo fa sembrare Natale una festa in cui i tirchi piangono e vorrebbero tornare alla fase sentimenti accompagnati da fatidico motto “l’importante è il pensiero” anche se il pensiero è orribile in modo obbiettivo.


Troppe volte si regalano cose inutili, cose che poi tornano a riciclare altre brutte e dimenticate occasioni, in un calderone di carta da pacco che non si strappa perché “Può sempre servire” e non serve mai.
Negli ultimi anni mi sono accorto sempre di più che c’è un’unica cosa che sopravvive a questi pacchi infiniti ed è il bigliettino.

Tutti noi abbiamo una scatola dei ricordi, quelle che magari rimangono per lustri e decenni a casa dei tuoi quando non vivi più con loro ma che un giorno tua madre ti mette in mano sostenendo che è giunto il momento che tutto quello che fu della tua cameretta di figlio adolescente venga ridato al legittimo proprietario perché lei deve allestire la stanza del pilates o dello yoga.

Non c’è regalo, brutto o bello che sia, costoso o di seconda mano, desiderato o no, che non sia ancora più piacevole da ricevere se ad accompagnarlo c’è un bigliettino, ma non uno qualunque scritto a caso sul parabrezza della macchina ma un bel bigliettino, riflettuto e ben scritto.

Una bella calligrafia (non bisogna essere per forza bravi come Beautiful Letters), una carta da lettere con il proprio nome e cognome, luogo e data, una frase di auguri e una firma indelebile, è questo che rende davvero unico il gesto dello scrivere, per una volta a mano, concedendo del tempo alle parole.
Può essere una borsa da viaggio Vuitton, un diamante da 3 carati o un buono spesa al Pam ma il bigliettino è davvero quello che fa la differenza perché non c’è messaggio più bello di quello che tu, a mano e con grazia, saprai scrivere.


Questo Natale scrivete a mano, un biglietto, una lettera o una semplice dedica e quelle parole sopravvivranno allo scorrere del tempo, cosa che non sempre possiamo dire di quel solito paio di calzini che ogni anno regala la solita zia. 
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